Questa recensione sbagliata di Soul è l’occasione per ripensare il sistema educativo e gli errori che non ci lascia fare.
L’uscita dell’ultimo lungometraggio dei Pixar Animation Studios, Soul (Pete Docter, 2020), segna un punto di svolta sotto diversi punti di vista. La celebre casa di produzione, per la prima volta nella storia e per cause di forza maggiore, legate all’emergenza sanitaria in corso, ha distribuito il film al grande pubblico attraverso la neonata piattaforma streaming Disney+. Il 25 dicembre 2020, in occasione del Natale più triste di sempre (sicuramente così è stato per molti bambini e bambine), ha provato a trasporre l’emozione della sala del cinema dentro le case degli abbonati, un esperimento forzato ma volto a ricreare la ricorrente atmosfera del film evento Disney.
Attuata questa piccola grande rivoluzione, i giovani spettatori si saranno ritrovati a fruire di un prodotto loro dedicato circa al 50%. Sì, perché buona parte dei contenuti della pellicola si presta incredibilmente ad una lettura per un pubblico maturo, in una stratificazione di punti di vista che ci ricorda subito il dedalo psicologico di Inside Out (Pete Docter, 2015).
Corpo e anima bla bla bla
Abbiamo letto decine di recensioni su questo film, più o meno entusiastiche, ed è chiaro che ciò a cui un adulto dovrebbe rivolgere la sua attenzione cogliendo le suggestioni di Soul, sarebbero la fantasiosa interpretazione della moderna dicotomia corpo/anima e, grande novità, il messaggio sul senso della vita™.
L’universo di Soul è declinato in maniera abbastanza lineare: si esiste come anime grezze prima di incarnarsi (nell’Antemondo), ci si incarna per un periodo limitato di tempo (vita sulla Terra) e infine si muore, quando l’anima abbandona il corpo (per raggiungere l’Oltremondo). In realtà, tutto pare a misura di bambino: nessun girone infernale, nessun dio-giudice o peccati da espiare all’ingresso dell’Aldilà, le anime sono pure e azzurrine prima di incarnarsi e pure e azzurrine trapassano. L’innocenza di queste anime parla sicuramente il linguaggio dei più piccoli, immuni (ancora per poco) ai discorsi morali di colpa e malvagità; offre inoltre una spiegazione plausibile sulla nascita che potrebbe reggere fino ai 6 anni circa e, dulcis in fundo, propone una pacifica forma di accettazione della morte come riservata al solo corpo.
Senza dubbio la parabola dell’anima di Joe incarnata nel corpo del gatto, che vediamo nella seconda parte del film, ci appare automaticamente come la più infantile, più buffa e giocosa, ciò non toglie che l’impianto dicotomico (corpo/anima) e tripartito (pre/durante/post vita) sia abbastanza comprensibile anche per i bambini, soprattutto per coloro che l’hanno visto accanto ad un genitore pronto a semplificare con qualche breve spiegazione, “ecco tesoro, è lì che se n’è andato il nonno”.
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Pixar, negli ultimi anni, ha insistito sull’argomento, dimostrandosi maturo nel proporre al giovane pubblico film che affrontassero anche il tema della morte e del suo significato in varie sfaccettature (pensiamo ad Up e Coco). In Soul è però presente un ulteriore elemento, forse collaterale, eppure capace di rendere il film innovativo.

Le anime-non-ancora-nate che si trovano nell’Antemondo sono tabule rase, infantilizzate, dei bebè senza personalità e non è chiarito da dove si originino o chi le crei, deduciamo dunque che non sia questo il punto. Ciò che invece ci suona fin troppo familiare è la questione Io-Seminario: ognuna di queste piccole anime, prima di raggiungere la vita sulla Terra, dovrà completare questa sorta di training personalizzato per scoprire, a priori, le proprie qualità personali (comprese manie e altre devianze) e la propria misteriosa scintilla, una dote peculiare a cui si è predestinati per dare un senso alla propria vita. Tutto scorre liscio: creative o socievoli, psicopatiche o narcisiste, votate alla scienza o all’altruismo, le anime, una dopo l’altra, si completano e si lanciano nella vita. Ma, a questo punto, qualunque studente universitario/a che abbia visto il film fin qui, avrebbe già la nausea. La dimensione pre-vita, in una logica tutta da gamefication, consiste fondamentalmente nell’accumulare bollini su di un distintivo che, in breve tempo, diventerà il lasciapassare per la vita vera.
Storia già sentita?
Ci piace pensare che la Pixar abbia voluto strizzare l’occhio a chi subisce questo tipo di dinamiche nella vita accademica (ma anche lavorativa) di ogni giorno. L’Io-Seminario, che si svolge come un vero e proprio seminario da college americano, fa grandi promesse, illumina gli occhi delle giovani anime-non-ancora-nate, impazienti di scoprire la propria vocazione e, soprattutto, è tenuto da tanti tutor bidimensionali che si chiamano tutti Jerry.
Di nuovo, suona familiare?
Ci piace anche immaginare gli autori Pixar come nostri complici e alleati di fronte all’istruzione accademica che si va trasformando sempre più in un supermercato di CFU (crediti formativi universitari) e in un agone di articoli per riviste specialistiche. Non solo, anche il mondo del lavoro oggi scintilla tutto per performatività, corsi di aggiornamento, plurititolati, master in lingue straniere, etc… l’imperativo è: accumula punti! Allunga il curriculum e avrai sicuramente più opportunità di fare carriera, di essere pieno di soldi e padrone della tua vita. Tutti siamo unici e speciali, tutti abbiamo un talento che ci farà fare strada nella vita e che verrà universalmente riconosciuto. Incredibile quante persone abbiano il talento per il food delivery o per i magazzini Amazon! L’Antemondo è quindi ricoperto da questa patina angosciante, in cui tutto è etereo e ben calcolato, “trova la tua strada in dieci semplici mosse grazie al nostro efficacissimo servizio di life coaching e la vita sarà tua”. Non ci crede più nessuno, motivo per cui la prima metà del film ci azzecca davvero nel creare questa sorta di enorme antifrasi. Tutto sembra perfetto, quindi, chiaramente, non lo è affatto.

Cortocircuito
Ed è qui che si può introdurre il protagonista del film, Joe, un musicista non bianco ossessionato dal jazz e che per professione insegna musica alle scuole medie. Le tinte della sua quotidianità sono sbiadite e abbastanza noiose, frustrate da un sogno di successo messo in un cassetto, tormentate dall’ideale del posto fisso e da una presenza materna iperprotettiva (seppur Joe dimostri più di 30 anni). Joe è un personaggio in cui, per gli adulti, è facilissimo rivedersi: un lavoratore della classe medio-bassa, un proletario, oseremmo dire, costretto a mettere da parte le sue doti artistiche perché, si sa, “con l’arte non si mangia”. Ma, fattore non trascurabile, Joe è comunque un insegnante.
Facciamo un velocissimo rewind: è il 1999 e la casa Disney (ri)lancia Fantasia 2000, il format che trasforma la musica eurocolta in immagini animate. Uno dei brani del lungometraggio è Rhapsody in Blue di George Gershwin, nel cui episodio il protagonista è un carpentiere non bianco, guarda caso, con l’ossessione per il jazz. Vediamo questo individuo sognante e frustrato affrontare una giornata tipo in cantiere, immaginandosi una vita parallela in cui è una star della scena jazz newyorkese. Lieto fine per questa edificante fiaba: l’operaio molla tutto quanto e a fine giornata miracolosamente si esibisce alla batteria tra scintillii e luci al neon sulle ultime note della meravigliosa rapsodia. Tipico messaggio disneyano, ovvero “rischia il tutto per tutto, insegui i tuoi sogni, non rassegnarti ad una vita mediocre perché la magia esiste”. Un messaggio positivo con cui diverse generazioni sono cresciute, purtroppo, in molti casi, rimanendo deluse.

È interessante notare l’iperbolico parallelismo tra Soul e l’episodio di Fantasia 2000: i due personaggi hanno molto in comune, esclusa la professione. Viene da pensare alla considerazione che la società ha degli insegnanti e che gli insegnanti hanno di se stessi. Da quando insegnare alle scuole medie è diventato mediocre? Per Joe insegnare è mortificante quanto spaccarsi le belle mani da pianista in un cantiere. Certo, è una questione di standard personali, eppure esiste uno stillicidio di valore per il ruolo dell’insegnante. Quando l’apprendimento si configura come un mega videogame in cui chi accumula più punti vince il premio più grosso, la mediazione dei docenti si affievolisce, si assottiglia, a volte è persino di intralcio nell’interfaccia studente-sistema. L’insegnamento è un ripiego, come se fosse svilente offrire a qualcun altro lo spunto per un sogno che si è dovuto abbandonare.
Anche per Joe Gardner avviene il miracolo disneyano ma, quando finalmente ottiene un ingaggio per suonare in un famoso quartetto jazz, muore. Precipitando in un tombino, tra l’altro, come a dire “caro Talete che tieni lo sguardo rivolto alle stelle, sei cascato nel pozzo”.
Joe è il classico personaggio pasticcione e ostinato, finisce alle porte dell’Oltremondo e non si preoccupa tanto di ciò che lo aspetta in quanto passato a miglior vita, bensì si dispera per essere morto proprio nel giorno della sua grande occasione di riscatto. A causa di una sorta di bug spazio-temporale tra i vari mondi, si ritrova per errore nell’Antemondo. Resosi conto della situazione, farà di tutto per tentare di incarnarsi nuovamente sulla Terra, nel suo povero corpo che, in realtà, lo attende in stato di coma nel letto di un ospedale. Sorprendentemente però, Joe non è l’unica anima defunta a trovarsi nel posto sbagliato. Gli alacri operatori dell’Io-Seminario, infatti, permettono regolarmente ad alcune anime di defunti di essere ospiti del seminario, perché facciano a loro volta da tutor alle anime-non-ancora-nate. E non tutor qualsiasi, le anime appartengono a defunti illustri come Einstein, Copernico, Jung, Madre Teresa, Gandhi, profili brillanti e geniali con il compito di fare da guida con il loro luminoso esempio. Joe viene ovviamente scambiato per uno di questi mentori e gli viene assegnata la piccola anima 22 perché la aiuti a trovare la propria strada nel mondo. Nonostante tutto sembri andare contro le previsioni, Joe si ritrova, quasi inevitabilmente, ad essere di nuovo un insegnante.
Cattivo maestro
Sicuramente qui comincia la parte più bella del film. 22 è un’anima impossibile, sorda a qualsiasi stimolo, riluttante ad incarnarsi, ribelle e cinica. Già molti cervelloni hanno tentato di completarla, tutti senza successo. A guardarla bene, 22 è il prototipo del “bambino difficile”, dell'”alunno che potrebbe ma non si applica”, dello “studente svogliato e problematico”, insomma tutte quelle definizioni che il sistema utilizza quando vuole mascherare il fatto di aver fallito. 22 non ha nulla di meno rispetto alle altre anime, anzi, il suo temporeggiare nell’Antemondo per procrastinare all’infinito la discesa sulla Terra, le ha procurato una vasta esperienza: ha conosciuto sapienti di tutte le epoche e ha osservato dall’alto come funziona la vita, per dedurne che non le interessa per niente. 22 è fuori dagli schemi e ci mostra il legittimo desiderio di essere dissidenti e la difficile condizione dei disadattati.
Joe, dal canto suo, è il primo tutor di 22 a non aver alcun interesse nel convincerla ad incarnarsi, anzi, la sua unica preoccupazione è tornare sulla Terra per suonare alla sua serata di debutto. Tuttavia, la prassi dell’Io-Seminario è spietata: 22 può sfogliare virtualmente l’esperienza di vita di Joe per lasciarsi ispirare, se non che si ritrova davanti ad un’esistenza deprimente, fatta di occasioni perse e provini finiti a porte in faccia. La vita di Joe fino a quel momento, infatti, non era affatto di successo, cosa che, per la prima volta, fa capire a 22 che può capitare di non essere dei vincenti. Da questo punto di vista il film è consolatorio e parla il linguaggio dei comuni mortali. Quasi chiunque può rispecchiarsi in 22, perché quasi chiunque, almeno in un’occasione, si sarà sentito in errore, strutturalmente sbagliato e fuori posto, irrecuperabile, ineducabile.

Ricordiamoci che gli obiettivi di apprendimento previsti nei percorsi di formazione (leggasi i bollini sul distintivo), sono plasmati sulle richieste della società; allora perché ognuno di noi vive il loro raggiungimento come una missione intrinseca di realizzazione personale? Questa domanda non si porrebbe se la società fosse completamente giusta ed equa, ma è più forte di lui, Joe non potrebbe costringere 22 a realizzarsi, non può farle promesse di nessun tipo, giacché lui stesso è la prova vivente che non basta scoprire la propria scintilla, il proprio talento, per vivere una vita piena e appagante. È l’exemplum ex contrario di cui, comunque, conosciamo il potenziale educativo. In ogni modo, Joe fa un errore dopo l’altro, sia da vivo che da morto e, come prevedibile, apprenderá la sua lezione solo a fine film.
Tra i vari scivoloni c’è il piano che i due protagonisti architettano per sfangarla, ovvero semplicemente quello di scambiarsi di posto: una volta completato, 22 cederà a Joe il proprio distintivo per reincarnarsi, mentre lei potrà starsene per sempre lassù, nell’ante-vita. Necessariamente, tutto va storto.
Apologia dell’errore
In breve, i nostri due si ritroveranno entrambi sulla Terra, tutto sarà sovvertito giacché 22 si incarnerà per sbaglio nel corpo di Joe, mentre l’anima di Joe si incarnerà nel corpo del gattone della pet therapy presente al suo capezzale. Un completo disastro, mancano poche ore al concerto e 22 è molto risentita dal fatto di essere precipitata nel baratro della vita vera, tra l’altro, in un corpo che non le apparterrebbe. Tuttavia, all’anima ribelle saranno sufficienti quelle poche, frenetiche ore di vita terrena per risolvere gli ingombranti problemi della vita di Joe, dal rapporto con la madre a quello, complicato, con la sua carriera di insegnante demotivato e di musicista. 22, nei panni di Joe, avrà un interessante colloquio con una delle giovani allieve della scuola media, decisa a farla finita con il trombone. La ragazzina, annoiata dalle considerazioni altrui, sfiduciata dall’ambiente, è scontenta verso la musica, nonostante il suo grande talento. Incredibilmente 22 saprà rimotivarla, in un chiaro gioco di specchi: nell’Antemondo non voleva sentire ragioni, mentre incarnata sulla terra è capace di insegnare, ovvero di sfruttare la propria esperienza per istruire qualcun altro. Senza dubbio, in questo, il merito è di Joe.
Insomma, il film in senso globale offre spazio alla mirabolante vicenda di un cattivo maestro che, in qualche modo, dimostra che esistono modi alternativi di spiegare la lezione. Ossessionato dalla sua dedizione al jazz, concentrato su quella che reputa la sua grande vocazione, tralascia forse il suo aspetto più nobile ed altruistico, ovvero il ruolo di insegnante. Il protagonista ha modo di riflettere su se stesso e sui propri desideri, riuscendo a realizzarsi in ciò che, ancor più che sfondare nel jazz, sembrava impossibile: convincere 22 a non mollare, a dare una possibilità a se stessa e alla vita che l’aspetta. Questo epilogo è quello che ci si aspetterebbe da qualsiasi esperienza pedagogica positiva.
Gli allievi come 22 sono esattamente i discenti di cui c’è bisogno, quelli che salvano salvandosi, quelli che obbligano a mettersi in discussione, a reinventare e reinventarsi, a stravolgere le proprie gerarchie e credenze. L’insegnamento non è un processo a senso unico, è uno scambio diretto, un dare e ricevere, un crescere insieme. Soprattutto, non è un processo infallibile, ce lo ripetiamo di continuo ma sembriamo dimenticarlo volentieri: l’errore è una delle migliori occasioni pedagogiche. Soul ce lo ricorda in un momento storico in cui l’imperativo è invece l’infallibilità, in cui lo stigma che pesa sugli errori è pesantissimo. Chi, come 22, è capace di mandare in crisi un sistema che si ritiene ben calibrato e corretto, è in realtà un anticorpo fondamentale, una spia che denuncia le resistenze e l’obsolescenza di valori sociali e obiettivi formativi in mutamento.
Hai letto: Elogio al cattivo maestro di Soul