Steven Wilson. Le mille facce del genio incompreso della musica

Steven Wilson è uno dei più importanti artisti post-rock degli ultimi 30 anni, eppure nessuno lo conosce.

Alessandro Aimone Cat

The most successful British musician most people have never heard of. Questo il sottotitolo che accompagna la nuova produzione studio (The Future Bites, in uscita a gennaio 2021) del più eclettico e poliedrico autore britannico dell’ultimo decennio. L’ironia della stessa campagna marketing, benché tagliente e dal sapore spiccatamente british, pone l’attenzione su questo dilemma, ormai croce e delizia del cinquantatreenne e dei suoi fan più devoti. Com’è possibile che le mille facce del genio Steven Wilson non siano conosciute ai più?

Steven Wilson genio incompreso

Devozione è un concetto adeguato a definire questo seguito, da anni in crescita e molto preparato, ma, allo stesso tempo, assai nostalgico e legato alla vecchia dimensione di Wilson. Quella di un autore sotterraneo e per pochi, da ascoltare e riascoltare per carpire ogni segreto, parola, contenuto. La considerazione di cui gode, specialmente nell’ambiente di chi mastica musica, è elevatissima, quasi una venerazione capace di elevarlo insieme ai grandi pilastri della musica rock, quali Pink Floyd o David Bowie. Eppure, sebbene il paragone non sia per niente improvvido e, anzi, in un certo senso quasi dovuto di fronte alla vastità del suo lavoro, qualcosa stride.

Se da un lato essere un musicista capace di ambire a grandi palchi internazionali è sicuramente motivo d’orgoglio, d’altro canto è quantomeno singolare che dopo cinque differenti progetti, oltre 40 album pubblicati in una carriera lunga 30 anni e una non trascurabile esperienza da produttore, non si senta parlare un po’ più spesso del signor Wilson.

Una superstar dal volto invisibile

Per apprezzare al meglio il problema, ancora un po’ di numeri riguardanti i suoi lavori più recenti: Hand.Cannot.Erase. nel 2015 raggiunge la 13° posizione nella classifica inglese dei cd più venduti e le riviste musicali lo incensano come pietra miliare del genere. Non solo all’estero, dove Visions lo definisce “Il The Wall della generazione Facebook”, ma anche in patria viene riconosciuto profeta del rock progressive. Nel 2017 esce To the Bone, sebbene non incanti la critica come il concept precedente, migliora ancora la ricezione nelle classifiche mondiali (3° posizione in UK) ed è seguito da un tour mondiale che culmina in tre gloriose serate alla Royal Albert Hall di Londra.

Il risultato di questi ultimi cinque anni di ascesa mediatica sono tuttavia scarni se guardiamo al di là dei numeri. Nessun singolo ha veramente avuto visibilità nelle radio, nessuna intervista su quotidiani di massa al di fuori di qualche sporadica apparizione e, soprattutto, balza all’occhio la sua assenza dal cartello di tutti i grandi festival musicali, incluso l’iconico Glastonbury.

Com’è possibile questa discrepanza? Come è possibile che una persona che per anni hadichiarato “Ho sacrificato la famiglia per la musica”, si riconosca allo stesso tempo “invisibile al mainstream”? Per rispondere a questo dilemma prendiamo in considerazione solo i due progetti principali dell’autore: la sua militanza nei Porcupine Tree e, in seguito al loro scioglimento, la sua produzione solista.

Merce musicale sottobanco

“I’m a collector and I’ve always been misunderstood”

Il primo e più importante motivo per cui Wilson è una figura così evanescente nel mercato è sicuramente la sua difficile collocazione in un genere discografico. Nel marketing di oggi la fiducia e il senso di quello che possiamo definire come ‘aria di famiglia’ sono cardini della produzione di contenuti, non solo nell’ambito musicale. Quando un artista si promuove, si avvicina sempre a delle coordinate di ascolto, dei riferimenti che possano invogliare nuovi utenti ad approcciarsi ai suoi contenuti. Allo stesso modo funzionano i suggerimenti dettati dagli algoritmi dei social network. I quali indirizzano su musica simile ai propri gusti per garantire la massima possibilità di soddisfazione.

In questo circolo vizioso di autoreferenzialità, l’eclettismo artistico è una virtù concessa ai pochi che la sanno imbracciare o agli ancora più rari artisti che, forti di carriere solide e schiere di fans, decidono di reinventarsi col passare degli anni con risultati alterni. Steven Wilson non è affatto esterno a questa logica ma, anzi, perfettamente calato nel suo tempo. La differenza sta nel suo aver creato un fil rouge fin dalla prima pubblicazione e di averlo mantenuto negli anni senza mai ripetersi. Esiste una musica oggettivamente wilsoniana dunque, ma quali sono le caratteristiche?

Gli archetipi wilsoniani

Molti tra i critici propendono per l’elemento della tristezza e della malinconia, caratteristica ricorrente in molti dei testi e delle atmosfere dei suoi brani. Questo criterio non è del tutto corretto, principalmente per due motivi. Il primo è che negli ultimi anni ci sono state anche composizioni più solari che hanno mantenuto la sua sonorità (in particolare tutto il disco To the Bone, ma anche Stupid Dream), il secondo è che è riduttivo definire triste ciò che non è ricco di accordi maggiori e positività, ma va indagato con maggiore attenzione.

Le tematiche dei testi di Wilson sono infatti molte, ramificate e di alto livello di riflessione: la dipendenza e l’alienazione tra i millenials in Anesthetize. Ciò che passa per la testa di un ragazzo prima di una sparatoria a scuola nella potentissima Dark Matter. Il sogno livido ed erotico di Trains, la toccante storia di Lazarus, ma in tempi più recenti anche il racconto di una vita ribelle rinchiusa tra le piccole quotidianità in Routine e la spietata ironia verso il consumismo in Personal Shopper.

In un’intervista rilasciata a Louder, ricollega la sua produzione artistica al grande archetipo della paura della morte La quale, sublimata e rielaborata nella sua arte, funge da propulsore delle paure e dei timori, così come, secondo lui, della figura di Dio.

I believe the reason mankind created the myth of God and religion is because we’re terrified of the idea of death, so we create these myths to try and make ourselves feel betterabout death.”

Questa prima tematica che collega la sua produzione è sicuramente uno dei motivi per cui Wilson non è uno scalatore di classifiche.Una prospettiva dura e deprimente forse, sicuramente non per tutti a causa del suo convinto ateismo, ma sicuramente più articolata della banalizzazione ‘musica triste’.

Rielaborare la tradizione

Superando quindi la classificazione per umore della sua produzione, l’approccio più immediato sarebbe quello del genere, ma questa categorizzazione, come abbiamo evidenziato prima, non si presta molto al nostro compito. E’ possibile infatti ascrivere questo musicista alla lunga onda del progressive rock britannico dei Pink Floyd, Yes, Genesis, King Crimson. Eppure come per ciascuno di questi grandi nomi, ci sono elementi di contatto ed elementi di unicità che lo avvicinano più al progressive di nuovo stampo. Comenquello più moderno e americaneggiante di autori come Dream Theater e i canadesi Rush.

La capacità di fondere innovativamente queste tradizioni e di toccare mondi distantissimi con maestria è da sempre la caratteristica della sua musica.

Analizzando più nel dettaglio: il progetto Porcupine Tree nasce come scherzo e parodia dei grandi gruppi prog anni ‘70, e già questo non è un elemento da trascurare. La band viene immaginata come composta da fittizi personaggi dai nomi tronfi e parodistici come Sir Tarquin Underspoon e Timothy Tadpole-Jones. Wilson, infatti, è da sempre avverso alla magniloquenza e alla solennità di un certo progressive.

Sperimentazione costante

Ad esempio le orchestrazioni dei tardi Emerson Lake and Palmer, considerate da Wilson ipertrofiche deviazioni dalla più concreta forma canzone che l’autore spesso utilizza. Infatti, i brani dei P.T., benché infarciti di lunghe code musicali e ambienti sospesi e mistici, non sfociano mai in lungaggini di sinfonie da grande orchestra o in simil-opere da decine e decine di minuti. Nei rari casi in cui questo si verifica, si tratta comunque di strutture riconducibili al modello preesistente, più simili a situazioni free-jazz che ad architetture caleidoscopiche.

Possiamo anzi sostenere che la musica di Wilson si sia evoluta lungo una direttiva ben precisa, che affondava le radici nel fertile sottosuolo della psichedelia inglese. E mano a mano si è sempre più allontanata, fino a diventare a volte pop (come nelle sonorità di Deadwing o nella recente canzone ABBA-like, Permanating ) a volte nu-metal (In Absentia) a volte spingendosi fino al jazz (Sectarian e più in generale il rivoluzionario cd Insurgentes) e in tempi recenti alla dance-elettronica (Personal Shopper e, probabilmente, l’interezza del nuovo cd). Oltre all’innegabile tradizione di brit-prog dunque, dov’è da ricercare il sopracitato fil rouge?

Parola all’autore

Ci torna in aiuto lo stesso Wilson che, molto esplicitamente, in numerose interviste parla del suo processo creativo, che ruota intorno ad una sola parola: innovazione. Sempre prendendo spunto dall’intervista rilasciata a Louder nel 2015:

The things I tend to like tend to be the things that push the envelope a little bit. I like things that are slightly unexpected juxtapositions of sounds and moods and genres.”

E ancora, da un’intervista per presentare il suo To the Bone nel 2017:

“The real innovations are coming from artists like Kendrick Lamar who exists more in the hip-hop scene”

Accessibilità e novità al centro, melodia con riff taglienti e memorabili, ampio spazio a progressioni armoniche e al dialogo tra gli strumenti, commistione di generi e modulazioni armoniche sempre presenti.

Riferisce a Decibel, 2018, con una chiarezza di intenti disarmante:

Bowie and Prince are quintessential examples of artists willing to reinvent themselves, risking everything their commercial standing in order to evolve as artists […] From the very get-go of my career, I thought I created this bubble, wherein people expected me to change.”

Rileggere se stessi per capire il presente

Nell’intervista si richiama al suo passato pop e si discosta dalla definizione di ‘prog guy’ che gli è stata affibbiata:

“The musical vocabulary is pretty much established. […] People are going to say, “Hey, that’s Steven Wilson.”

Questa volontà di essere se stesso, richiamata con grande insistenza è probabilmente uno dei motivi che lo portarono a concludere l’esperienza con i P.T., ritenuta troppo ingabbiante per le sue velleità artistiche. La personalità di spingersi al di là, la voglia di leggere il presente tramite una continua rilettura di sé. Queste sono le vere chiavi di accesso al genio di Wilson e allo stesso tempo uno dei motivi che, da sempre, gli hanno precluso un apprezzamento più diffuso. Ma allo stesso tempo sono ciò che ci permettono di entrare a fondo nella sua arte, a prescindere dal genere a cui questa appartiene.

Un faro per molti

“It’s not what you’ll possess/It’s how you will express/The essence of you”

Il primo aspetto da considerare è, senza dubbio, quello tecnico. Ciò che ha sempre reso rilevante la musica di questo autore, a prescindere dal genere di nicchia e dalle scelte di mercato, è la spaventosa qualità dei musicisti al suo fianco. Se il quartetto dei P.T. era sicuramente un circolo di virtuosi, la sua produzione solista ha potuto vantare alcuni tra i nomi più rispettati a livello mondiale: dalle chitarre di Govan al basso di Beller, passando per nomi come Minneman, Rudess, Hackett, Travis

Lo stile dei suoi brani è diventato iconico anche proprio per la presenza di questi mostri sacri al suo fianco: non solo di composizione, ma anche di esecuzione. Meritano di essere evidenziate, anche come influenza di riflesso, le sfaccettature che lo riguardano, prima tra tutte la fervente attività di produttore e ingegnere del suono. Tra i lavori più significativi è impossibile non ricordare come dietro al sound di ‘Blackwater Park, acclamato e rivoluzionario disco degli Opeth, sia presente il suo nome, ma non solo…

Oltre a numerosi featuring con la band e il solo Mikael Åkerfeldt (in entrambi i sensi di scambio), ricordiamo collaborazioni con Marillion, Anathema, Ian Anderson e Pendulum. Negli anni ha svolto con apprezzamento anche il lavoro di re-master di numerosi dischi, tra cui molti brani pop anni ’80, significativi per lui fin dall’infanzia (tra cui Prince e, soprattutto, i Tears for Fears, fondamentali per la sua evoluzione artistica). In tempi più recenti anche una mastodontica opera di remix degli Yes.

Come si ridefinisce un’era

Il suo passato da programmatore ha indiscutibilmente segnato i suoi primi anni nella musica e le tematiche dei suoi testi, così come il non aver mai avuto una formazione strutturata. I suoi studi musicali sono stati privati, anche per quanto riguarda il lavoro di studio e il mastering. Questo fatto amplifica innanzitutto il suo immenso talento (i primi dischi e demo furono registrati interamente da lui, in versione polistrumentista). Ma soprattutto permette di capire come la sua progressione verso la commistione di generi sia frutto di una sensibilità cresciuta con il tempo, tramite la pratica e le sue idee applicate direttamente, senza il filtro della teoria accademica.

Lo stile di Wilson ha oggi molti epigoni ed è andato a definire in maniera inequivocabile il prog moderno. Alcuni nomi sono Pineapple Thief, Anathema, Mariusz Duda, con Lunatic Soul e Riverside, Iamthemorning. Spostandosi verso il metal, anche The Contorsionist. Il punto di incontro di molti di loro è senza dubbio l’etichetta Kscope, creata ufficialmente nel 2008 per accogliere questa nuova progenie di progressive tutto europeo, ma nata in realtà nel 1999, proprio (ed unicamente) per distribuire Stupid Dream, disco degli stessi Porcupine Tree. Non solo quindi inventore del proprio genere musicale ma anche vero e proprio iniziatore di un movimento, un’altra delle mille facce del genio.

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