Sarà un hamburger a definire le personalità di ognuno, come uno schema o modello calato dall’alto, in un sistema capitalista “gore” che prima mette all’ingrasso e dopo rovista tra le nostra budella.
Mi piacerebbe formulare, attraverso l’uso improprio di Pulp Fiction (1994), un’analisi del nostro sistema fondato sul consumo, le differenze, i modelli, i codici, i segni, la violenza, l’opulenza. Per farlo userò le considerazioni di Jean Baudrillard in La società dei consumi (1970). Ho deciso di utilizzare il secondo film di Quentin Tarantino perché Il regista, non si sa se consciamente o inconsciamente, è riuscito a creare uno spettacolo che in buona sostanza non significa niente. La storia di gangster di professione, ladri per necessità, droga, violenza, redenzione, “il nostro DNA”.
Ma cos’è questo boccone dal sapore “pulp”? E’ il viscidume, una rivista sconcia, la vita lurida. Vedere Pulp Fiction è come prendere consapevolezza della società in cui ci troviamo. Uno specchio che riflette la nostra immagine del mondo. Ma perché usare Pulp Fiction? Perché si presta bene a un discorso sulla nostra società violenta, opulenta e, che in buona sostanza, ha perso il suo significato.
Una delle frasi che più colpisce del film è “Sono americano, il mio nome non vuol dire un cazzo”. Butch, uno dei personaggi dell’opera, risponde così alla domanda riguardante l’origine del suo nome. È una frase che fa sorridere, certo, ma guardandola più nel profondo sembra voler dire che è tutta la società a non voler significare nulla. Baudrillard infatti nel suo libro introduce un capitolo con la frase To be or not to be myself e andando avanti con la sua analisi afferma anche che “non c’è più nessuna persona”. La persona in valore assoluto con i suoi tratti specifici, le sue volontà, le sue banalità, le sue passioni è morta. Al suo posto c’è la “persona assente” che è quella che s’intende “personalizzare”. Saranno i segni a ricostruirla, creare un’individualità, esplodere nell’anonimato più totale.
“La differenza è per definizione ciò che non ha nome” e mentre le differenze reali facevano delle persone esseri contraddittori, le differenze personalizzanti invece, a detta di Baudrillard, gerarchizzano gli individui in una scala indefinita di modelli, al partire dai quali esse sono sottilmente prodotte e riprodotte. Sarà un Hamburger a definire la personalità di ognuno. Differenziarsi significherà affiliarsi a un modello, affiliarsi a una moda e quindi privarsi di ogni differenza reale anzi, “è nella perdita delle differenze che si fonda il culto della differenza”. La conformità dunque sarà l’avere in comune lo stesso codice, gli stessi segni, ciò ci renderà differenti rispetto ad altri. È la differenza con l’altro che farà la parità dei membri di un gruppo. Il sistema, in sostanza, elimina ogni qualità originale per non conservare esclusivamente lo schema distintivo e la sua (ri)produzione sistematica. Ancora Pulp Fiction ci mostra come affezionarsi a degli oggetti plasma la nostra personalità. Senza l’orologio Butch non è Butch. Senza il suo portafoglio con su scritto BADMOTHERFUCKER Jules non è Jules. Mia deve ballare altrimenti è “solo” Mia. Deve distrarsi, iscriversi a un codice che è costellato di segni. Un codice che la iscrive a un modello ben definito.
Dunque l’individuo è invitato a piacersi e compiacersi. Baudrillard afferma che “è con il piacere a se stessi che si hanno tutte le possibilità di piacere agli altri. Non solamente la relazione con gli altri ma anche la relazione con se stessi diviene una relazione consumata, che non bisogna confondere col fatto di piacere a se stessi sulla base di qualità reali. Il consumo si definisce sempre mediante la sostituzione a questa relazione spontanea di una relazione mediata attraverso un sistema di segni”. Gli oggetti non sono più strumenti ma segni – divengono significanti.
Come quindi ritornare alla condizione che Baudrillard definisce di “differenze reali” e che precedevano la società dei consumi e dell’opulenza? “Dimenticando le rotaie verso casa” direbbe qualcuno o forse fare qualcosa perché la si vuole davvero. Più facile a dirsi che a farsi dato che in questa società siamo ciò che ci personalizza, siamo il trucco che indossiamo, le scarpe che portiamo e la cultura che consumiamo. Vogliamo ciò che non ci piace; o meglio, compriamo e consumiamo ciò di cui abbiamo bisogno ma che in qualche misura non ci soddisfa. Viviamo nella casa del consumo come “omogeneizzazione totale”, gli oggetti sono i nostri simulacri e i supermercati le nostre chiese.
Un fun-system che richiede la nostra felicità. “Siate felici!”; abbiamo il dovere di gioire. Il consumo è una prassi collettiva; “scambiatevi un segno di pace”, “gli uomini giocheranno al soldato e le donne giocheranno alle bambole con se stesse”. E’ nell’essere “veramente voi stessi” che obbedite al massimo grado di imperativo collettivo: “siate una prescrizione”.
Ora, da questo delirio cerchiamo uno smascheramento. Immaginiamo, anzi iperstizioniamo sulle rovine. Cerchiamo di andare oltre il teatro psicoanalitico che ci dice di fermarci. Pulp Fiction potrebbe mostrarci ancora una volta la via. Ezechiele 25:17 è un passo della Bibbia inventato dal regista, ripetuto da Jules ogni volta che vuole ammazzare qualcuno a sangue freddo. Ma cosa vuole dirci? È la domanda che Jules si pone alla fine: ci sto provando con tutto me stesso a diventare il pastore, Ringo. Decide di ritirarsi dalla carriera da gangster e di mettersi in viaggio. Fino a quando? Lo sa solo l’ignoto o il “signore” direbbe lui. Si è aperto a un’infinità di possibilità; cosa che invece non ha fatto il suo collega Vincent, che invece ha deciso di continuare con la sua carriera per poi essere sparato.
Quindi per concludere: Viviamo in una società viscida. Una società della sollecitudine e una società della repressione, una società pacificata e una società violenta. La violenza però non è più iscritta a un’etimologia classica, eroica, ma siamo sempre più abituati a una violenza spettacolarizzante. Pulp Fiction è anche questo: una specie di capitalismo Gore. È importante fare riferimento all’omonimo libro di Sayak Valencia. Nella sua analisi la scrittrice con Capitalismo Gore fa riferimento allo spargimento di sangue esplicito e ingiustificato, all’altissima percentuale di viscere e smembramenti, spesso mescolati alla criminalità organizzata, al genere e all’uso predatorio dei corpi, tutto questo attraverso la violenza più esplicita, come strumento di necroimpoteramento. Un Capitalismo i cui effetti si manifestano simultaneamente nella distruzione dei corpi e nella produzione di capitale – capitale che nel capitalismo gore è dato dalla distruzione del corpo che diventa il prodotto, la merce; così l’accumulazione è possibile solo contabilizzando il numero dei morti, dal momento che la morte è diventata l’attività più redditizia .
Una società violenta, talmente tanto spudoratamente violenta da sembrare finta, da fare sorridere. Lo stesso Tarantino, alla domanda del perché ci fosse così tanta violenza nei suoi film, risponderà: perché è divertente!
Per concludere, possiamo affermare che siamo personalizzati e ciò che crediamo nostro è direzionato dal sistema che ragiona secondo le sue finalità. Uno schiaffo in faccia alla teoria economica della scelta individuale secondo la quale gli individui sanno cosa è meglio per loro e prendono le loro decisioni razionalmente. “Benvenuti nella società dell’opulenza” potrebbe recitare il cartello all’entrata della nostra società. Abbondiamo, e poiché di tutto, non abbiamo niente se non i nostri simulacri, i nostri significanti, le nostre credenze. La verità è che “ci piaceva ballare per distrarci” e ora “ci piace ascoltare gente che ci dice di ballare”.
In una società dove tutto non significa più nulla, dove neanche la violenza riesce più a scandalizzarci e dove siamo presi dalla nostra personalizzazione, ecco che nel frattempo diventiamo insensibili a tutto. Incapaci di poter portare avanti qualsiasi tipo di contestazione. Potrebbe similare a una qualsiasi trama cyberpunk e invece è la nostra realtà. La nostra personale pulp fiction.
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