Il conflittuale rapporto tra i vecchi maestri e una generazione Z potenzialmente sovversiva, ecco di cosa si parla in L’Ultima Ora.
Decisamente distante dai luoghi comuni sulla figura del professore, del carismatico maestro di scuola e di vita, L’ultima ora (Sébastien Marnier, 2018) si colloca piuttosto in un filone del cinema francese ben consolidato (Entre les murs, A voce alta, per citarne alcuni), che vede il mestiere rappresentato più realisticamente nelle sue problematicità e contraddizioni: una frattura aperta, uno scontro tra generazioni destinato a rimanere tale.
L’autorità imperfetta
Pierre è chiamato a fare da supplente di letteratura a una classe di adolescenti considerati superiori alla media, i migliori allievi sul territorio, dal cui rendimento dipende il prestigio della scuola. Dovendo sostituire il loro precedente professore, suicidatosi inspiegabilmente di fronte alla classe, l’insegnante cerca di smuovere l’indifferenza e imperturbabilità dei ragazzi. Incoraggia dunque l’espressione di sé e della sfera emotiva. Ma nel contesto scolastico performativo anche i traumi vanno delimitati e risolti in fretta, per mantenere alto il rendimento. La classe infatti liquida in fretta i suoi tentativi: “Abbiamo già degli psicologi che si occupano di questo, il mercoledì e il venerdì”.
L’approccio pedagogico di Pierre si colloca così a metà tra la comprensione, l’ascolto e il giusto distacco che gli permette di essere un punto di riferimento stabile. Sembra tuttavia essere l’unico adulto a comprendere l’importanza del compito, a non rifuggirne la responsabilità e a non lasciarsi rassicurare dall’apparente autosufficienza e dal perfezionismo dei ragazzi. Dovrà però scontrarsi con lo scetticismo dell’ambiente verso un insegnante tutt’altro che perfetto (a quarant’anni supplente precario e tesista alle prese con Kafka), che è ancora alla ricerca della sua strada e, usando le parole del regista, “si pone le stesse domande dei suoi allievi”.
Il realismo magico
I frequenti rimandi al ben noto immaginario kafkiano diventano quindi espedienti per rappresentare un sistema che si preoccupa dei soli risultati, rimuovendo i problemi umani. I sintomi di questo rimosso emergono nel film attraverso una climax di episodi assurdi e inspiegabili che scalfiscono progressivamente la superficie di finto ottimismo. Vediamo così tutta l’inquietudine che grava sugli adolescenti. Essi vengono a scoprire un mondo a cui nessuno è in realtà in grado di prepararli, perché in fieri: un mondo sempre più complesso, minacciato dall’imminente catastrofe climatica, l’inquinamento, gli allevamenti intensivi, le catastrofi naturali, le epidemie.
La generazione sola
Lontano dall’immagine della giovinezza necessariamente spensierata, ancora acerba e dedita agli eccessi, i ragazzi si trovano a dover gestire un’eccessiva consapevolezza. La crudeltà delle immagini del mondo così com’è, imperfetto, tragico, assurdo, è lasciata tutta in mano a loro.
Un articolo apparso sull’Internazionale durante il lockdown (maggio, 2020) descriveva gli effetti dell’isolamento sugli adolescenti. Una professoressa esprimeva la perplessità verso l’indifferenza dei suoi allievi: “La pandemia non li sorprende” (link all’intervista in fondo alla pagina). Parole che riecheggiano in tutto il film e ne sanciscono il finale. L’ultima ora è un film di spaventosa onestà, che coglie lucidamente la crisi attuale e che si pone un interrogativo sulla stessa possibilità di insegnare e vivere in assenza di senso. Una risposta sembra trovarsi nel nesso vita-cultura, nella ricerca di senso che accomuna le persone di tutti i tempi. E proprio in questa dimensione esistenziale, Pierre si sforza di tendere il filo, pericolosamente sottile, che lo lega ai suoi ragazzi.
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