Prescindendo dall’effetto rollercoaster in Dunkirk è possibile rintracciare il profondo solco del trauma.
Christopher Nolan è un cine-tecnocrate smaliziato, non lo ha mai nascosto, in nessuna delle sue opere. Forse è uno sforzo frustrato quello di coloro che vanno a caccia di una morale nella sua poetica. Tuttavia, difficile eludere la tentazione di una lettura più umanizzante di un colossal come Dunkirk (id., 2017). Film in cui il registra opera una scelta sfacciata nel piazzare i suoi mirabolanti artifici dentro la macchina infernale di una guerra realmente combattuta, una cicatrice indelebile nella storia mondiale del Novecento.
In questa pellicola Nolan, senza troppe sorprese, decostruisce, apre su un tavolo chirurgico gli spazi temporali dell’azione e ne riassembla un mosaico spettacolare, maneggiando abilmente gli elementi naturali di terra, acqua, aria e fuoco per il suo cocktail visivo.
Nel maggio del 1940, presso Dunkerque, sugli 11 km di spiaggia francese che si affaccia sulla Manica, circa 300.000 uomini delle truppe alleate vengono evacuate in una lotta contro il tempo, prima che la morsa dell’armata tedesca ne faccia strage. La situazione termopilea, di tensione estrema, è chiaramente pane per i denti del cineasta che, questa volta, in veste di narratore storico, si assume collateralmente la pesante responsabilità di posizionare la cinepresa dentro una trincea, tra gli schieramenti di una guerra mondiale.
Il corpo e la macchina
File interminabili di soldati che, con inquadrature aeree mozzafiato, striano la spiaggia come minuscole formiche, come venature dello stesso paesaggio: arido, glaciale, quasi marziano, il trionfo dell’oceano sull’impotenza delle truppe bloccate a terra. Un’unico spostamento d’aria sembra appiattire a terra i corpi dei soldati quando i cacciabombardieri sganciano sopra le loro teste, una drammatica danza corale in cui non esiste il singolo, esiste soltanto la coscienza collettiva.
L’elemento della carne è racchiuso dentro questi enormi cordoni di uomini, il braccio armato e senza nome della patria, che si muove cieco verso la sopravvivenza. La guerra è qui un’esperienza cruenta, sanguigna, umorale, ma anche fredda, metallica e meccanica. Aerei che volteggiano nel cielo come uccelli. Imbarcazioni di ogni dimensione che colano a picco come enormi mostri marini che si immergono nell’oceano. Relitti di veicoli militari che si tramutano in scogliere. Il limite fisico che separa i soldati intrappolati dalla loro casa è anche il nebuloso limite tra la natura e la più umana delle tecniche: la guerra. Forse è proprio su questa malferma soglia che si muove Nolan, come un acrobata, quando con la sua perizia tecnica cerca di catturare con la macchina da presa la disperazione, il terrore e la speranza, così dolorose da esprimere a parole.

Nella bolgia
Intere sequenze del film sono letteralmente scene infernali dalle tinte dantesche: le scialuppe inglesi stipate di soldati, i cui luridi nocchieri sono anonimi Caronti costretti a respingere in mare gli uomini che non ci stanno più, non a colpi di remo a ma colpi di calcio del fucile. La macchia di gasolio che si incendia sulla superficie dell’acqua mentre i soldati sguazzano al suo interno, sembra una tortura degna della prima cantica, un supplizio che è un punto di non ritorno.
La meravigliosa fotografia del film mastica, scena dopo scena, quadro dopo quadro, questo titanico scontro tra uomini e natura, tra uomini e macchine, tra uomini e uomini, potenti immagini dell’annichilente caos bellico.
Trauma
La resa visiva del dramma di Dunkerque è, insomma, da brividi. Piuttosto, i dialoghi scarsi e l’indifferenza verso un’indagine psicologica dei personaggi, rischiano di rendere questa impresa filmica l’ennesima espressione di autoreferenzialità stilistica. Eppure qualcosa trapela, che fosse nelle intenzioni del regista o meno: la guerra è una piaga, una malattia, un contagio che è difficile levarsi di dosso. E questo è già un giudizio, il che allontana il film dal pericolosissimo baratro della pura spettacolarizzazione degli eventi bellici.
Il primo soldato inglese recuperato da uno yacht civile mentre è alla deriva, seduto sul cadavere del suo caccia precipitato, mostra i chiari sintomi dell’irreversibile sindrome da stress post-traumatico che ha tormentato una intera generazione di giovani sopravvissuti alla guerra. Uno dei martiri dell’Operazione Dynamo sarà un giovanissimo civile innocente, giunto a bordo di un’imbarcazione privata per soccorrere i militari. Non solo morirà, ma poco prima perderà anche la vista. Uno dei soldati francesi che la cinepresa segue più da vicino, è caratterizzato da un terrorizzato mutismo – per mimetizzarsi tra i soldati inglesi nel tentativo di fuggire più in fretta – la cui rottura sarà immediatamente seguita dalla morte. Cecità, perdita della parola, blocco fisico e psicologico sono nel conto salato che la guerra esige dai giovani immolati sulla sua causa.
Il naufragio del Vecchio Mondo
La generazione di giovani che fruisce di prodotti cinematografici come Dunkirk non è stata protagonista o testimone degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale. L’immaginario cui essa attinge si plasma sui libri scolastici, su altri film, su documentari e racconti orali. Tuttavia, anche lo spettatore più giovane (bianco e occidentale) avrà interiorizzato la mortifera simbologia dei conflitti di questo secolo. Essa ha, molto più probabilmente, le sembianze delle stragi di migranti del Mar Mediterraneo, dovute alla totale instabilità politica del nord Africa e al conseguente e massivo flusso migratorio verso l’Europa.
All’interno di questo film uscito nel 2017, un frame ci sembra strizzare inquietantemente l’occhio all’attualità. Su un’imbarcazione di salvataggio, alcune decine di soldati appena recuperati dall’acqua, sono ammassati l’uno sull’altro, con ancora addosso i giubbotti arancioni e la pelle completamente annerita dal gasolio, con la sola luce dello sguardo fissa in camera. Un’immagine troppo simile a quelle viste nei servizi dei nostri telegiornali nazionali per restarvi indifferenti.

Ossimorico l’altisonante discorso conclusivo del primo ministro Churchill, letto dalle colonne di un giornale con la voce di un soldato sopravvissuto. Assolutamente non edificante l’ultimo fotogramma con l’aviatore, eroe inglese degli ultimi istanti a Dunkerque, catturato dai tedeschi. Infine lo sguardo sgomento di un giovane soldato, proiettato verso il massacro imminente e senza redenzione dell’Europa, che chiude il film col peso di un macigno.
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