Catastrofe, sarcasmo, antidoti

Il discusso film “Don’t Look Up” non è la solita metafora sulla fine del mondo bensì un ritratto post-ironico e sincero delle storture del nostro tempo.

Giuliano Comoglio

Immaginiamo: se il mondo dovesse finire tra sei mesi, cosa succederebbe? Cosa accadrebbe se conoscessimo la data di scadenza non solo del pianeta, della biosfera e dell’habitat, ma anche della nostra umanità? Provo a rispondere. Non succederebbe solo una cosa, ma rimarremmo travoltə in un’enorme cascata di eventi.
Prima conseguenza: un’esplosione infodemica senza precedenti. Notiziari affollati di bollettini giornalieri, numeri catastrofici, conseguenze sociali e politiche, summit transcontinentali per studiare e scongiurare il peggio.
Dopodiché i meme. 

Internet si dipingerebbe da carnevale virtuale come mai prima, mettendo insieme le migliori menti della comicità istantanea, per somministrarci la più potente botta di dopamina nella storia – alcuni esempi molto recenti rendono questo scenario quasi scontato.
Obiettivo: addolcire il turbamento di schiere infinite di utenti. Infine proprio loro, cioè noi: lə utenti. Un patrimonio immenso di socialità, corpi e individualità ora destinate irrimediabilmente al baratro. Un’infinità di esistenze, alcune maturate nel tempo per sbocciare gradualmente, altre per emergere al ‘momento giusto’, che con la fine di tutto resterebbero miraggi eternamente in potenza, conclusi prima di avverarsi.
O forse no.

La verità, ovvia, è che un destino del genere sarebbe imprevedibile, dunque ingestibile a priori. Esattamente come tutti i destini. Infatti il film che immagina questo scenario apocalittico, Don’t Look Up, si nutre di tragicommedia e satira, facendo danzare tutti i soggetti e gli oggetti che distinguono la nostra epoca in una coreografia meravigliosa e grottesca, piena di finzione e quindi crudelmente vera.

Don’t Look Up è uscito l’8 dicembre 2021 su Netflix

Il film

Nella regia di Adam McKay le assurdità interferiscono con il reale, mettendone alla prova riflessi e reazioni. Il pretesto del film è precisamente l’apocalisse annunciata: una cometa gigantesca colliderà con la Terra entro pochi mesi, con conseguenze analoghe a quelle del meteorite del cretaceo. Gli autori della scoperta sono due astronomə, il professor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) e la dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), che in preda al peggior panico sperabile avvisano di corsa tutti gli enti competenti del governo americano.

Randall, ordinario dell’Università del Michigan, è un personaggio timido e insicuro ma appassionato all’insegnamento. Kate è una scienziata brillante e giovane, che impegna tutte le proprie risorse nella sua strada pur non potendo nascondere lo sconforto della sua generazione. Quando l’allarme giunge alla Casa Bianca, a riceverlo sono due personaggi costruiti a specchio rispetto ai protagonisti. Al remissivo Randall Mindy si contrappone la trumpesca Presidente degli Stati Uniti Janie Orlean (Meryl Streep), incurante del pericolo perché completamente presa nei calcoli elettorali, mentre di riflesso all’autenticità di Kate Dibiasky c’è l’odioso e incompetente Jason Orlean (Jonah Hill), figlio della Presidente nominato – guarda caso – Capo di Gabinetto della Casa Bianca. 

Randall (sulla sinistra) e Kate rivelano la scoperta in diretta TV | Netflix

Fino a circa metà pellicola, tutti i personaggi si uniscono a organizzare una missione spaziale per tentare di deviare la cometa. Ma proprio a missione avviata, il governo fa rientrare tutti i missili nucleari appena lanciati: il principale finanziatore della presidenza, il magnate tecnologico Peter Isherwell (Mark Rylance) – un mix allucinato e al limite del robotico di Musk, Zuckerberg, Gates e Jobs -, scopre sulla meteora enormi quantità di terre rare e materiali utili all’industria elettronica. Così viene programmata una nuova folle missione: far esplodere il corpo celeste e farne schiantare i frammenti sulla Terra, per poi estrarne i preziosi contenuti. Poi la storia continua, ma spoileriamo poco per volta.

Metafore analitiche

Il film, pienamente nella struttura comica – McKay è comunque uno dei padri spirituali del Frat Pack -, funziona per scontri di blocchi simbolici, espliciti e mai fraintendibili. La meteora che minaccia la Terra, conferma lui stesso in un’intervista insieme al cast, allude chiaramente al cambiamento climatico. Ma la cosa interessante è che questa metafora differisce strutturalmente dall’oggetto che rappresenta: il disastro del clima è un processo dolorosamente graduale, mentre la meteora distruggerà il pianeta in una data precisa. La calamità progressiva in cui siamo immersə diventa, nella finzione, la catastrofe per antonomasia, rapida e imperturbabile. 

Esasperando ai limiti i loro tratti, gli oggetti e i soggetti del presente si trasformano in maschere simboliche e metaforiche. Come avviene nella commedia dell’arte. Così la nostra realtà placida e inerziale viene tradotta in una lotta di poli opposti e i suoi contorni sfumati diventano confini netti. Il simbolo è come un microscopio: amplifica l’immagine del reale e ci permette di studiarlo.

Il metodo simbolico si riflette anche nei personaggi: da un lato i ‘buoni’ – semplifichiamo -, rappresentanti del principio di realtà, della scienza e dell’ arte (ci sono anche Ariana Grande e Scott Mescudi, in pratica nel ruolo di loro stessə); sono personaggi grati alla vita, nutriti dall’empatia e dal contatto umano. Dall’altro la schiera dei ‘cattivi’. 

Questi sono la politica populista, arrogante e incompetente che si cura solo dei sondaggi, ma sono anche i CEO inumani del capitalismo tech, le testate giornalistiche e le televisioni a caccia di ‘storie da vendere’, al di là della loro urgenza: i mille volti del cinismo moderno e del sarcasmo, accecati da loro stessi e «neanche abbastanza furbi da essere cattivi».

Simboli immaginari…

Insomma, i due schieramenti opposti si vedono chiaramente. Eppure, rispetto alla retorica dell’eroe che salva il mondo di cui il cinema è sempre stato saturo, qui McKay fa un passo in avanti. Niente figure eroiche solitarie ed elette: le istanze ‘positive’ sono sostenute coralmente da tuttə lə loro rappresentanti, anche quando questə incappano singolarmente in ostacoli e deviazioni dal loro percorso – ad esempio, con l’annuncio del cambio della missione, Randall si mette al servizio della Casa Bianca come consigliere scientifico, salvo poi pentirsi dell’errore e riportarsi attivamente tra i sopraguardisti (i personaggi che temono la catastrofe, ndr). 

Le diverse fragilità e virtù si compensano unendosi, formando un unico organismo. Una collettività forse impotente contro un asteroide gigantesco, ma sempre prevalente sulle spinte del cinismo. E in fondo, oltre a piccoli sketch disseminati nella pellicola – spesso improvvisati -, i personaggi positivi non sono tanto perfetti e ideali da diventare irrealistici. Le vere caricature stanno nell’altro schieramento e sono soprattutto i dettagli a portarle nell’assurdo.

Al posto del solo cravattino rosso, la Presidente Orlean esordisce in un abito totalmente rosso e Streep, nella versione in lingua originale, le dona una parlata leggermente larga e approssimata che… Dai diciamolo chiaramente: è Trump

Sulla scrivania dello Studio Ovale compaiono ritratti della Presidente con personaggi dal mondo dello spettacolo – tra tutti, una fotografia con Steven Seagal – e le smanie mediatiche spiccano anche nel suo primo discorso televisivo alla nazione, tenuto a bordo di una corazzata riempita di bandiere e fuochi d’artificio.

Ma a completare il suo corredo visivo c’è il dettaglio terribile di un’inquadratura, nella scena del briefing per la seconda missione. La Presidente annuncia al personale governativo, attonito, il cambio di programma sulla gestione della meteora e la follia di un tentativo suicida per tutta l’umanità, nel nome del profitto. Sulla bilancia politica ed economica, le probabilità di fallimento sono rischio d’impresa, quindi fanno parte del gioco. 

Così, nel mondo in mano alla tecnologia da vendere, la Presidente degli Stati Uniti si abbassa a mera annunciatrice del nuovo piano, che il magnate Isherwell esporrà subito dopo al consiglio. E nel dipinto sullo sfondo, Nordisti e Sudisti si uniscono per attaccare insieme, nel mezzo, l’ultimo fantasma rimasto della politica – dalla ‘Guerra dei diritti’ alla guerra dei… non so nemmeno cosa. 

L’assurdità è lo stesso Isherwell che qualche scena dopo coccola teneramente i suoi droni militari – i quali rispondono ‘scodinzolando’ con il trapano che impianterà le testate nucleari nella cometa -, o ancora Jason Orlean che nel discorso al lancio della seconda missione, in diretta sugli schermi di miliardi di persone terrorizzate, ‘prega per le cose’, come «mega appartamenti, orologi, auto… ehm… e vestiti!». Ritratti esagerati e surreali. Ma in fondo, quanto falsi?

Il discorso della presidente nello studio ovale, sullo sfondo un quadro che rappresenta la Guerra Civile Americana | Netflix

…per assurde verità

Pirandello sostiene che il comico è un «avvertimento del contrario». Ma in questo film, dire che i contrari si avvertono sarebbe eufemistico. Qui l’impianto simbolico, che esaspera confini e differenze, ci allontana dal modo in cui funziona il mondo nella realtà. Questo può essere un problema, che rende il film automaticamente controverso; d’altronde, se non lo fosse non ne staremmo parlando.

In un articolo pubblicato sull’Hollywood Reporter, David Rooney evidenzia con toni gentili come la caratterizzazione «da cartone animato» dei personaggi e una critica così scoperta portino troppo facilmente il pubblico «a sentirsi superiore ai conservatori amorali, ai liberali pietosamente soddisfatti di sé e ai capitalisti insaziabilmente avidi». Di fronte a una trama così macchiettistica, l’umorismo del film sarebbe spesso sul punto di scadere in satira paternalista, «insopportabilmente compiaciuta». E la ‘modalità-facile’ nel riconoscere da che parte stare rischierebbe di essere improduttiva per la causa del clima, o addirittura di banalizzarla.

Da questo nascono due pericoli: primo, smorzare la scintilla dell’attivismo, che scocca solo superando i limiti di sopportazione – e un pubblico soddisfatto potrebbe non essere arrabbiato quanto serva -, secondo, innescare una gogna avventata verso i personaggi negativi, ignorandone la profondità e l’umanità presenti pur se nascoste sul fondo. La sfera emotiva della Schadenfreude (il godimento delle altrui sfortune, ndr)ci porterebbe in automatico dalla parte dei cattivi, che si sentono superiori in ragione dell’inferiorità altrui – come Jason gode nella sua superiorità economica rispetto a Kate.

Ma Rooney potrebbe non avere ragione.

È vero che la stessa presenza di personaggi così tanto buoni e ideali potrebbe essere ridondante o didascalica, specie se gli antagonisti sono caratterizzati in questo modo.
I colpevoli del disastro, in effetti, sono davvero evidenti. Lo sono così tanto che verso la fine i loro stessi elettori-consumatori gli si rivoltano contro quando, guardando in alto, capiscono di essere stati ingannati. Tanto da rendere superflui, dall’altro versante, dei buoni così buoni. Eppure il film sembra andare oltre tutto questo questo.

Il fatto stesso che i protagonisti positivi siano rappresentati chiaramente sottintende che i cattivi da soli non basterebbero a spingere l’avvertimento del contrario, perché forse non è il film in sé a procurarcelo.

Se noi spettatorə percepissimo autonomamente la follia di Isherwell, l’antipatia di Jason e l’incapacità di Janie Orlean avremmo un film di critica politica-economica, una denuncia dell’immobilismo colpevole sul cambiamento climatico. Ma per accorgerci davvero del problema, abbiamo bisogno che le prime scene ci mostrino due bravə scienziatə che effettivamente guardano il cielo attraverso un telescopio, fanno calcoli per accertarsi delle misurazioni e si disperano autenticamente, perché mai come in quel momento vorrebbero essersi sbagliatə. 

Il regista ha avvertito il bisogno di provare al pubblico l’onestà dei protagonisti e il loro essere ‘brave persone’ per antonomasia, qualunque cosa significhi.
Così capiamo: il cortocircuito, poco comico, sta nel nostro atteggiamento.

La chiave post-ironica

Con la vertiginosa rivoluzione tecnologica e i suoi impatti lavorativi, sociali e culturali, dopo un buon ventennio tra acrobazie e stagnazione più o meno transnazionale del mondo politico e ancora di più con l’isolamento pandemico, il mondo sembra un po’ più grigio e meno emozionante. Spesso la competizione pervade tutti gli ambienti che abitiamo, forse tendiamo di più a evitare i conflitti e l’altro, portatore di una quota di pensieri nascosti, potrebbe potenzialmente nuocermi: meglio esporsi un po’ meno e difendersi un po’ di più.

Se c’è della verità in questa impressione arbitraria, possiamo spiegare un po’ più facilmente l’esplosione della stand-up comedy prima – e qui sono ipocrita, perché la amo molto – e dell’internet memetico poi: due tra i tanti risultati della cultura ironica in cui viviamo e che abbiamo creato, ancora fortemente postmoderna e radicata nell’Occidente almeno dal dopoguerra.

La cometa di Don’t Look Up non appena diventa visibile ad occhio nudo sulla terra | Netflix

Nel saggio POST-IRONY. On art after irony (2014) Johannes Hedinger studia la meccanica ironica e distaccata su cui si basa interamente il pensiero postmoderno nell’arte e nella società tutta.

Partendo da David Foster Wallace e analizzando il pensiero di molte penne del romanzo contemporaneo, Hedinger nota come l’inflazione dell’atteggiamento ironico, prima arma potentissima del dissenso e ora tanto banalizzata da prevalere nel linguaggio pubblicitario, ci fornisca effettivamente una corazza sociale impenetrabile. Ma diventando immuni a ogni possibile attacco – schivabile con un repertorio di risposte rapide e brillanti, preparate nell’arco di innumerevoli docce e dormiveglia serali -, presto la corazza diventa una barriera, poi un muro e infine una fortezza; uscirne sarà sempre più duro.
E spaventoso.

L’antidoto, che per Hedinger è già tra noi, è l’arrivo di una nuova cultura: la post-ironia. Partendo dalla nomenclatura dello scrittore Alex Shakar, che in La Selvaggia (ed. italiana 2005) identifica la «fase pre-ironica» dagli anni Cinquanta agli Ottanta e la fase «ironica» tra gli Ottanta e i Novanta, gli anni Duemila coinciderebbero con il picco dell’intensità ironica nella nostra cultura, e ne annuncerebbero insieme anche il declino. Hedinger cita anche l’E Unibus Pluram (1993) di Foster Wallace, quando afferma che «I prossimi veri “ribelli” letterari […] potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di “anti-ribelli”, nati-desiderosi che osano indietreggiare dall’osservazione ironica, che hanno il coraggio infantile di sostenere effettivamente valori univoci. Che trattino i vecchi problemi umani fuori moda […] con riverenza e convinzione».

Ma la Post-ironia di Hedinger non rinuncia tout-court all’ironia in sé e agli strumenti unici che, dimostra anche McKay, questa può fornirci per studiare il reale. Il mondo post-ironico è semplicemente «un mondo migliore, libero dal sarcasmo e dal cinismo», in cui le questioni si affrontano frontalmente, «assumendosi responsabilità e avendo il coraggio di concepire l’utopia e le belle idee senza temere il fallimento, l’imbarazzo o le grandi emozioni». 

Questo mondo tanto auspicato sarebbe dunque ricco di leggerezza e umorismo, ma sostanzialmente privo di attacchi e della sfiducia che oggi mina il nostro rapporto con l’altrə. La Post-ironia è comunicazione non-violenta, accettazione delle piccole ipocrisie proprie di tutti gli esseri non-onniscienti. È confronto diretto, ma sempre costruttivo. 

Nuove sincerità

Bene, l’atteggiamento post-ironico sembra proprio quello che, con bontà genuina, anima le intenzioni, il messaggio e i protagonisti di Don’t Look Up. E il suo vero scopo si cela nelle nostre reazioni contrastanti alla sua visione.

Proprio perché ne siamo compiaciutə o terribilmente contrariatə, questo film fa buon servizio alla sua causa: i suoi protagonisti non sono eroici paladini planetari, né esempi ideali di senso civico. Il loro compito è essere semplicemente quello che sono, personaggi positivi in una sceneggiatura esagerata nei suoi contrasti e sfacciata nella sua critica.

Perché i veri (non)paladini evocati da questo film siamo noi spettatorə. Noi persone, con sette miliardi di vite diverse, dotate di profondità inimmaginabili, nelle nostre piccole o grandi incoerenze. Noi e le nostre battaglie interiori, i nostri giudizi ammirati o sdegnati verso il film di McKay e le nostre esperienze, stratificate come gli anelli degli alberi; noi che viviamo le questioni qui simboleggiate e che possiamo intervenire davvero per correggere la rotta collettivamente. Se cerchiamo personaggi tridimensionali in questa pellicola bene, li abbiamo trovati: siamo noi.

L’ultimo tassello dell’analisi risiede in un fenomeno unico nella storia recente della cultura pop e di internet. Nel 2010 usciva sulla TV americana il cartone animato dei giocattoli My Little Pony, sviluppato dall’artista digitale Lauren Faust. Com’era prevedibile per uno show associato a giocattoli iconici, il successo fu subito enorme, tanto che la serie durò quasi dieci anni. Meno prevedibile fu il successo clamoroso tra il pubblico adulto.

I Bronies rompevano ogni stereotipo pensabile sull’identikit dei fan di uno show di pony colorati: erano in gran numero maschi adulti, forse inizialmente riuniti da intenti scherzosi, ma che presto hanno mostrato un’affezione profonda e sincera. Questa community, tra le prime così grandi a nascere grazie internet, promuove ancora oggi tantissime iniziative di cosplay, raduni e lavori d’arte ispirati alla serie; la loro attività è coordinata da un blog ancora pienamente attivo e ricco di contenuti sempre nuovi.

Il fenomeno-Bronies dà da macinare al cervello, oltre che ai mematori seriali, sempre in agguato. E ha macinato così tanto da aver fornito l’esempio più lampante di una tendenza culturale legata a doppio filo alla Post-ironia annunciata da Foster Wallace e Hedinger.

My Little Pony nasce come brand di giocattoli lanciato sul mercato nel 1982 | Bandai Namco

In un primo articolo pubblicato su Wired, Angela Watercutter riconosce l’esigenza di inserire i Bronies in un impianto teorico profondo, per avvicinarsi a capirne ragioni e meccaniche. E per farlo, sfodera una tinta diversa del concetto di post-ironia, trovando una definizione alternativa questa volta autosufficiente, cioè emancipata dall’essere solo un post-qualcosa.

Partendo dall’iconica serie Glee, altro cult degli anni Dieci, ed estendendo la definizione anche ai Bronies in un secondo scritto di poco posteriore, Watercutter adotta il termine «Nuova Sincerità» per incorniciare le espressioni culturali contemporanee di apprezzamento genuino – e incurante dei giudizi sarcastici – degli show televisivi e dei prodotti culturali contenenti messaggi univocamente positivi, ancora una volta trovando fondamento nello stesso Foster Wallace e negli studi del sociologo Harvie Ferguson.

Post-ironia e Nuova Sincerità, i due lati di una medaglia tutta nuova: la premessa il primo, la sostanza il secondo. 

Se la fase declinante che stiamo vivendo è il tramonto ‘post-’ dell’epoca ironica, con i suoi ultimi esponenti che urlano di cinismo contro nemici immaginari o poteri forti di cui sono i primi rappresentanti, la fase che si affaccia all’orizzonte è una sincerità riscoperta. Un nuovo tempo in cui l’arte e la cultura possano procedere grazie a spinte creative nuove e non più nella ripetizione sempre più fredda di quelle passate.

Se i nostri calcoli sono giusti, tra sei mesi non ci aspetterà nessuna meteora assassina ma la speranza – molto post-ironica – di cominciare a sentire nell’aria un cambiamento radicale. E, sempre se abbiamo ragione, Don’t Look Up sembra esserne un forte presagio. 

Sull’esistere

Con gli stacchi-immagine delle faune di tutto il globo, degli spaccati di quotidiano umano e dei corpi celesti sospesi nel sistema solare, McKay ci porta in dimensioni che ci rimpiccioliscono come il Monaco in riva al mare di Friedrich. Moltə di noi conoscono bene quella sensazione, che porta a esiti molto diversi in base al nostro mood, in uno spettro che va dalla commozione più lacrimosa al più desertico dei nichilismi. Ma il punto non è quello. Il nocciolo di quelle scene è che sì, tutto continuerà sempre a scorrere intorno a noi o nonostante noi. Ma quel ‘noi’, lì presenti in quel momento, è il dato irremovibile.

“Il monaco in riva al mare” di Caspar David Friedrich (1808-10)

Se c’è un modo laico per comprendere il momento di preghiera in cui si raccolgono tutti insieme i protagonisti, appena prima del gran finale, questo potrebbe essere l’affermare, un’ultima volta, che l’umanità ha vinto. Ciò che ci distingue dalle intelligenze artificiali e dalle macchine di cui è amico Isherwell è quella parte della realtà che il nostro cervello non riesce a descrivere con i calcoli.

Che la si chiami Dio, destino o che non la si chiami proprio, l’unica certezza è che non esistono modi migliori di altri per affrontarla. Ma forse, decidere se rinnegarla o provare faticosamente ad accettarla può far la differenza sul modo in cui ci percepiamo all’interno dello spazio fisico e di quello virtuale dei rapporti umani. In questo modo, una preghiera pur condivisa da personaggi laici può essere una delle possibili strade – certamente discutibile – verso l’accettazione. 

Così, al pensiero della nostra fine, qualunque sia lo scopo che ci attribuiamo, compreso il non sentirsene uno addosso, capiamo che il nostro percepire ciò che ci circonda e il nostro auto-percepirci attraverso sensi, pensieri ed emozioni genera il nostro punto di vista, cioè l’unica condizione affinché tutto quanto esista. 

E se tra sei mesi dovesse arrivare una cometa a spazzarci via, teniamo semplicemente a mente questo dato, che ci renderà sempre vivə e irrinunciabili, poi facciamone ciò che crediamo. Ma verso gli ultimi momenti, per non perdersi lo spettacolo, ricordiamo: just look up!

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