Quello sulla propria identità è un enigma classico della filosofia; forse Dune, di recente al cinema, può aiutarci a cogliere i primi indizi di una non facile risoluzione.
“È incredibile come non ci si renda conto di quanto si è soli e spaventati finché non si ha qualcuno al proprio fianco a sostenerci.”
Colleen Hoover
Risulta quantomeno curioso che in un’epoca di globalizzazione e internazionalizzazione, come quella in cui viviamo oggi, vi siano ancora casi di ambiguità su come debba pronunciarsi una parola inglese (seppur utilizzata in un contesto inusuale). Ciò è emerso con particolare evidenza di recente, in occasione dell’uscita nelle sale cinematografiche italiane del film Dune di Denis Villeneuve (precisamente il 16 settembre 2021). Coloro che non abbiano vissuto su Marte (o magari su Arrakis) negli ultimi mesi avranno probabilmente sentito quantomeno menzionare quest’opera, forse chiedendosi perché abbia generato un così gran chiacchiericcio sui social e non solo, o forse invece attendendola come la venuta di un messia; quel che è certo, tuttavia, è che dell’esatto modo di pronunciarne il titolo si hanno ben poche certezze: l’italianizzazione “dune” o la pronuncia in lingua originale “djʉ́wn”. Questa equivocità di fondo può avere molteplici cause, non ultima che, nell’universo immaginario raccontato nel film, tale parola è in realtà un nome proprio, rendendo forse vane le argomentazioni di chi àncora la prevalenza della pronuncia inglese su quella italiana ai natali dell’autore del romanzo originale, dalla cui opera tutte le altre (compreso il film di Villeneuve) sono tratte, ossia lo statunitense Frank Herbert.
Sia come sia, questa lunga e, per certi versi, verbosa introduzione ha l’intento di portare il ragionamento su un piano ben diverso, assai più delicato e complesso: l’ambiguità di cui si scrive non ha impedito il diffondersi capillare della fama di quest’opera e della sua accoglienza generalmente positiva (o perlomeno, assai raramente vittima di stroncature, il che di questi tempi rappresenta comunque un importante traguardo). Ciò serve come pretesto per dimostrare che a volte il nostro nome e, per estensione, i molti modi nei quali possiamo essere chiamati non sono essenziali per definire la nostra identità, chi siamo veramente e quanto valiamo.
Oggigiorno diventa sempre più complesso non volerci inseriti in qualche gruppo, della più svariata natura, entro cui poter ritrovare altre persone che possiedono (o dicono di possedere) alcuni frammenti di identità che sentiamo come nostri, che ci appartengono e ai quali apparteniamo: essere individui slegati da tutto e tutti genera in noi un profondo senso di insicurezza, non tanto e non solo per la mancanza di qualche aiuto a cui poterci rivolgere nei momenti di difficoltà, quanto piuttosto perché non ci consente di capire realmente chi siamo.
Si sente parlare di una pluralità di identità, che sia identità di genere, identità sessuale, persino identità digitale, tanto che risulta spontaneo domandarci se nasciamo con una precisa identità o, al contrario, ce la creiamo ogni giorno, tassello su tassello; ma entro quali limiti ciò è possibile? Nasciamo come una tabula rasa, come sosteneva John Locke nel Saggio sull’intelletto umano, andando ad incidervi sopra ciò che siamo nel corso della nostra esistenza empirica, oppure già da neonatə in noi sono presenti dei tratti congeniti che ci accompagneranno per tutta la vita? E se così fosse, come possiamo riconoscere tali tratti e non confonderli con ciò che l’esperienza diretta del mondo esterno fa germogliare in noi?
Il tema centrale resta, in ogni caso, il rapporto con gli altri: l’identità individuale ha senso dal momento che ci mette in rapporto col nostro prossimo. Può sembrare contraddittorio che una cosa così intima e personale come l’identità poggi su tali fondamenta, ma da Aristotele in poi l’uomo è stato identificato come un animale sociale, per le ragioni più svariate, partendo nondimeno dal presupposto che, in mancanza di qualunque tipo di interazione con individui differenti, è la nostra stessa individualità a non potersi pienamente formare. In proposito, una bellissima definizione di identità utilizzata dal professor Umberto Galimberti è “dono sociale”; egli afferma, anche piuttosto perentoriamente, che è il contesto umano che ci ruota intorno nel corso della vita a definirci e grazie ad esso (ossia all’opinione altrui, manifestabile in moltissime forme) riusciamo a sentirci più o meno realizzati. Quindi, la vera domanda è: quanto siamo influenzati dagli altri nella comprensione di noi stessi?
Non si ha qui la pretesa di trovare facili risposte a tematiche complesse, l’intento è semmai quello di stimolare una riflessione, prendendo ancora una volta spunto dal Dune di Villeneuve: evitando ogni spoiler di sorta, voglio citare un apprezzatissimo scambio di battute (che si può ascoltare anche nel trailer del film) tra due personaggi, padre e figlio, dopo che quest’ultimo ha manifestato tutta la propria insicurezza riguardo al nebuloso futuro che lo attende (giovani all’ascolto! Anche a voi certi pensieri suonano familiari?). Dopo aver prestato attenzione alle parole colme di dubbi del figlio, il duca Leto Atreides (per i terrestri all’ascolto, Oscar Isaac) risponde così “Un grand’uomo non cerca di essere un leader, è chiamato ad esserlo. Ma se la tua risposta è no, sarai comunque quello che desideravo tu fossi… Mio figlio.” Al di là del contesto fantasioso narrato, si ritrova in questo discorso una possibile soluzione ai quesiti posti in precedenza e che costituiscono una delle più grandi paure del nostro tempo: non sapere chi siamo.
Ciò che siamo dipende da noi stessi, a prescindere dall’ipotetico cammino che qualche forza sovrannaturale abbia impresso in noi, e scegliere di seguire o meno “la nostra strada”, scegliere di appartenere ad una fazione piuttosto che ad un’altra dipende dalla risposta alla chiamata (anzi, alle molteplici chiamate) che ci verranno rivolte nelle nostre vite. Forse non nasciamo grandi leader, o forse sì, forse non nasciamo donne o uomini, o forse sì, forse non nasciamo atei, cristiani, bianchi, neri, eterosessuali, omosessuali, buoni, cattivi, capaci di fare qualcosa o inadatti a fare tutto, o forse sì. In ogni caso, ciò che davvero conta e che davvero dobbiamo sforzarci di fare, a prescindere da quello che ognuno diventerà, è trovare il nostro personale duca Leto che, al nostro fianco , ci sostenga nonostante tutto: “sarai comunque quello che desideravo tu fossi.”
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