La monorotaia del futuro

A distanza di sessant’anni da Expo Italia ’61 che cosa rimane dell’idea di futuro che la vecchia generazione stava costruendo?

Aharon Quincoces

Vedere il moncone della monorotaia è molto di più che ricordare Italia ‘61. Di fatto, osservare quel triste frammento di un’estate italiana, è vedere lo scheletro di un’estate del pensiero. Fioritura durata poco più di vent’anni: dalla Fiera mondiale di New York del 1939 alla Fiera mondiale di New York  del 1964: Futurama. Viene allora da chiedersi che cosa rappresentassero queste fiere e cosa volesse dire ai cittadini Italia 61. In altre parole, dove pensava di portarci la monorotaia? 

Fu di sicuro un canto ottimistico, visto dalla cinica posizione dell’oggi, che si adopera col  vantaggio di sapere come è andata a finire quella stagione, e fu soprattutto la manifestazione più chiara e potente che la società civile potesse esprimere riguardo alle proprie aspirazioni future. Erano il disegno di un futuro migliore. Questo vuol dire, a ben pensarci, che erano espressione di  una forza creativa e immaginativa del futuro. Impossibile pensare il futuro senza immaginarlo perché è sempre un tempo impossibile, ignoto, mai davvero avvenuto. Insomma, un tempo di congetture che vogliamo far passare per acute sicurezze. Non possiamo biasimarci, in primo luogo perché siamo fatti così, in secondo luogo perché sappiamo solo camminare nel presente,  fatto di solide percezioni sulle cose e sulla gente (ma sì, scomodiamo pure Battiato). Immaginiamo il futuro appoggiati nel presente, talvolta anche nel passato. Non è poco. Immaginare è una forza propulsiva. 

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La monorotaia fu attiva dal 1961 al 1963, anno in cui cadde in disuso fino al definitivo smantellamento avvenuto nel 1980.

New York e Torino disegnavano sì un futuro migliore, ma non solo. Ponevano anche interrogativi  forti, superati talvolta dalla forza creativa, da una voluta incoscienza o da una preoccupante  cecità. Tra gli interrogativi posti ce n’era uno davvero cogente: qual è il luogo dell’essere umano? Certo non si pose in questi termini ma lo possiamo desumere dal motto della New York del 1964: “La realizzazione dell’uomo in un mondo che si restringe in un universo in espansione”. 

Ebbene sì, il mondo migliore guardava lontano, puntando verso le stelle e l’infinito. Anzi, verso un  infinito in espansione, tutto il contrario di un mondo fisicamente finito. Ecco quindi il monito  inconsapevole per il futuro che nessuno desiderava vedere e che si nascondeva dietro le colate di cemento armato, vetro-resina, elettronica e mobilità individuale; d’altronde la macchina volante  era dietro l’angolo e i Jetsons un giorno sarebbero stati i nostri antenati. 

Palazzo Nervi, Palazzo a Vela, la monorotaia ALWEG ci volevano portare in un futuro fatto di  presente. Erano la forma tangibile di come l’immaginazione ci situava avanti nel tempo,  mescolando il desiderio di miglioramenti e la quotidianità del presente. Un miscuglio assai  improbabile perché, in fondo, era contraddittorio: un futuro immobile oppure un presente  pompato di steroidi utopistici, in altre parole, un’illusione. Che il futuro fosse ottimisticamente illustrato nelle immagini proiettate, oppure che si  trattasse di un’illusione utopistica, ad oggi non tutto è da buttare. Il futuro immaginato ha sempre avuto e ha ancora un punto di forza che non deve essere dimenticato. 

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The Jetsons fu una serie animata di successo esordita negli Stati Uniti nel 1962 | Hanna-Barbera

Il problema però è proprio la capacità di immaginare un futuro. Una questione che presuppone almeno la nozione di possederne uno, cioè tempo non ancora accaduto, nonché un’idea su cosa fare di quel tempo e tutte le risorse che l’accompagnano. Immaginare così ampiamente il futuro suppone un’idea collettiva, un’immagine che coinvolge una pluralità di esseri e prospettive, vive grazie al fatto di avere una dimensione sociale. Questo ha il grosso inconveniente, a seconda di come lo si guardi, di esser possibile solo se esiste una grande comunione d’intenti. Un’idea di futuro è di per sé un notevole esercizio di riflessione, inteso in due sensi: rispecchia  la nostra visione di noi stessə e gli aspetti che non osiamo guardare, ma anche come vorremmo cambiarci, semmai vorremo farlo. 

“Future is not what it used to be”, disse A.C. Clark. Ma in quale momento il futuro smise di essere quello che avevamo sempre immaginato? Probabilmente quando quella dimensione collettiva si sgretolò e rimase solamente quell’enorme “io” edonista, che spiazzò i figli dei fiori, per scambiarlo con status sociale e oggetti vari, come una Porsche di seconda mano o un attico a Manhattan: impossibile per qualsiasi monorotaia competere ad armi pari. Il futuro allora non andava oltre la settimana. La visione cronica degli anni ’80, perdurante decade, ha fatto sparire il futuro dietro le nostre sagome personalizzate. Nessuna dimensione collettiva, nessun futuro: molto più efficace del nichilismo punk. Si capisce allora che il futuro era più la sua stessa idealizzazione che non la sua forma concreta, era più l’idea della della monorotaia che non la sua carcassa abbandonata in un capannone e poi demolita, smontata pezzo per pezzo. 

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Uno scorcio sui resti della monorotaia attualmente visibili alla vecchia stazione Sud | Flickr

Ora, immaginare il futuro impone, giocoforza, ricreare il mondo che la  generazione precedente aveva immaginato. Impone anche, allo stesso modo, che ci sia davanti  agli immaginanti una prospettiva. Oggi, risultato del cinismo della generazione precedente o di ogni combinazione possibile dei fatti, la generazione che deve immagine il futuro si trova senza tempo. La sensazione pressante che ogni tempo sia concluso, che resti solo l’attesa dell’apocalisse, impedisce qualsiasi immaginazione. In altre parole, ripristinare la monorotaia è  l’ultima cosa da fare, prima bisogna ripristinare la possibilità d’immaginare, bisogna sfidare ogni convenzione, ogni risultato, ogni struttura, ogni tempo, adoperarsi come se il tempo fosse il risultato delle proprie azioni e non un’entità a sé stante. La prima cosa da fare oggi è immaginare  il tempo. Poi tutto il resto. 

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