La spinta reazionaria di molti paesi sull’aborto non impedirà alle donne* di mettere in pratica un loro diritto, anche ricorrendo a metodi “fai da te” e alla costruzione di un’enorme rete di mutuo soccorso.
Il 24 giugno 2022 la Corte Suprema statunitense ha ribaltato la storica sentenza Roe vs. Wade che, dal 1973, sanciva costituzionalmente il diritto all’aborto. Rispetto alla narrazione che gli Stati Uniti propongono di se stessi, la decisione appare anacronistica e non congruente con l’idea di impero di libertà e democrazia che propugna. In Italia si sarebbe dovuto attendere ancora sino al maggio 1978, quando la Legge 194 avrebbe depenalizzato e disciplinato le pratiche di interruzione di gravidanza.
Entrambi i provvedimenti si ottennero grazie al cosiddetto femminismo “della seconda ondata”, che conquistò i propri diritti strappandoli attraverso i movimenti di piazza. Già nel 1981, il Movimento per la Vita italiano si mosse in attacco alla legge, proponendo un referendum abrogativo che, pur sollevando un accanito dibattito, non riuscì nell’intento di modificarla.
L’inganno
Tuttavia, a distanza di quasi mezzo secolo, gli attacchi al diritto all’aborto non hanno mai cessato di infuriare non solo nei paesi dove esso è proibito, ma minacciando costantemente anche quelle legislazioni che ne avevano quantomeno disciplinato l’attuazione.
Mai, nei paesi occidentali, si è discusso di vera e propria liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza: per anni governi composti in stragrande maggioranza da uomini hanno legiferato e circoscritto il proprio controllo sui corpi gestanti, generando una graduale illusione di accessibilità ad una pratica medica essenziale. Se le leggi sono espressione di un determinato sistema culturale, è alle zone grigie e ai punti d’ombra che bisogna guardare per colmare lo scarto tra la norma scritta e la sua effettiva applicazione.
In Italia, l’obiezione di coscienza sancita dall’art. 10 della legge 194, tiene tutt’oggi in scacco la storica rivendicazione al diritto di scelta delle donne e delle persone gestanti, con una percentuale di medici obiettori che supera il 60%. Negli Stati Uniti, stati come Texas, Alabama, Georgia, Ohio, Kentucky, Mississippi e Louisiana presentavano già forti restrizioni per l’accesso all’aborto non solo sul piano legale, ma anche eludendo i principi costituzionali e facendo leva sulle condizioni di razzializzazione o classe sociale delle donne, ponendo ostacoli insormontabili relativi al reddito o regolamentando superfluamente le strutture che praticavano aborti. Questa tendenza liberticida ha ricevuto un’incredibile spinta e una legittimazione indebita da parte delle politiche del governo Trump (2017-2021).

Il forte inasprimento delle limitazioni da parte di numerosi governi europei negli ultimi anni (in testa Malta, Polonia e Ungheria) non è casuale e, sotto certi aspetti, non ha precedenti nella storia dell’oppressione patriarcale. Il controllo su quello che è, di fatto, il lavoro riproduttivo è oggi di natura marcatamente ideologica: valori che in passato erano appannaggio dei gruppi religiosi sono ora incorporati nelle politiche più secolarizzate. Il modello della famiglia eteronucleare vincolata dal matrimonio, che segrega le donne attraverso il lavoro domestico e di cura non è più soltanto un disegno voluto da dio, bensì il requisito essenziale alla sopravvivenza di un sistema economico liberale e capitalista.
Più i movimenti di liberazione delle donne hanno eroso i pilastri della schiavitù di genere, più le strutture dominanti hanno reagito con rabbia e terrore, adottando metodi muscolari e moralisti per evitare di far franare il castello che sostiene i regimi di (ri)produzione. Non ha importanza quanto le democrazie progrediscano sul fronte dei diritti civili perché gli attacchi a chi detiene il capitale riproduttivo delle nazioni non faranno che diventare più feroci se il paradigma capitalista non viene messo in discussione.
Self-help
Se si parla di paradigma, è chiaro che ci sia una enorme fetta della popolazione mondiale che non può rientrarci, se non a patto di pesanti compromessi sulla propria libertà, sul proprio corpo e sulla propria salute. E’ più che mai evidente che, in contesti sanitari ed economici che si fanno sempre più ostili per le donne che vogliono disporre liberamente del proprio corpo, sia necessario ragionare ed agire a lato di un determinato sistema, creandone uno alternativo, sotterraneo, non riconosciuto, anche ai margini della legalità.
Durante le proteste che hanno immediatamente seguito la decisione della Corte Suprema USA, tra gli slogan che hanno maggiormente rimbombato nelle piazze riportiamo: “non potete bandire l’aborto, potete solo bandire l’aborto sicuro”. E’ qui racchiusa una profonda verità: le donne e le persone con utero hanno sempre abortito, anche quando era illegale, anche quando era estremamente difficoltoso, e continueranno a farlo sempre. Semplicemente lo faranno al di fuori dei circuiti statali, al di fuori dei protocolli della medicina istituzionale e patriarcale, nascoste agli occhi dei padri padroni che preferirebbero vederle morire piuttosto che interrompere una gravidanza.
Nel secolo scorso esistevano ancora figure come le levatrici – ostetriche sarebbe infatti riduttivo – donne che non solo erano capaci di assistere attivamente un parto, ma erano anche depositarie di un sapere antico e non ufficiale attraverso cui riconoscere e alleviare malattie, somministare cure, o indurre l’aborto con l’utilizzo di piante e delle loro proprietà. L’impero patriarcale della ragione e della medicina scritta nei manuali ha tentato per millenni di appropriarsi di quel sapere e di eliminare chi si rendeva scomoda mettendolo in pratica nell’ombra e tramandandolo oralmente, ha perseguitato le donne, soprattutto se anziane e sagge, accusandole di stregoneria e uccidendone a migliaia e, ancora più anticamente, relegandole nelle dimensioni religiose pagane, nei culti delle dee o delle sacerdotesse vergini.
La cultura medica maschile si basa ancora oggi su operazioni massicce di espropriazione e alienazione delle donne dal ruolo di chi, in primis, sa prendersi cura di se stessa e conosce la fisionomia e i processi del proprio corpo. Le antiche pratiche di cura delle donne verso altre donne, che derivavano da una profonda conoscenza della vita e, come nel caso dell’aborto, anche della sua manipolazione, sono divenute parte di un sapere distorto, formalizzato e inaccessibile, quello medico e ginecologico in particolare.
Così, non possedere una conoscenza sufficiente di sè e non disporre di strumenti per automedicarsi è, soprattutto oggi, un fattore che mette a rischio le donne*, costringendole a delegare totalmente le questioni relative alla propria salute sessuale e riproduttiva. Inoltre, sono forzate a mettersi nelle mani di personale medico che, attraverso le leggi, esercita un mero controllo dei loro corpi, spesso generando confusione o incutendo timore gratuito.

All’inizio degli anni ‘70, dagli Stati Uniti giunsero le prime informazioni sulle cliniche di self-help, ovvero circuiti informali entro ambienti femministi in cui le donne provavano a formarsi autonomamente in ambito medico per apprendere e praticare procedure di cura e per istruire le proprie pari affinchè facessero altrettanto. Partito da Los Angeles nel 1971, il movimento sorto dal Feminist Women’s Healt Center, attraverso il lavoro di attiviste come Carol Downer, Debi Law o Lorraine Rothman ha portato in giro per gli States e per l’Europa il modello della clinica di auto e mutuo-aiuto. Di lì a poco gli stati si sarebbero mossi per legiferare in materia di aborto ma, come ci raccontano le cronache di questi anni, le donne non possono aspettare i tempi della legge, nè tantomento esporsi al rischio che deriva dall’essere in balìa di norme mutile e inapplicabili.
In questo momento, negli Stati Uniti come in molti altri paesi dell’America Latina o del continente europeo, centinaia di gruppi di donne si stanno adoperando per costituire una rete invisibile di sopravvivenza, condividendo saperi e pratiche, aiutandosi l’un l’altra senza delegare a operatori esterni la cura della propria salute sessuale.
In Italia, nel corso della pandemia di Covid19 del 2020, le reti IVG ho abortito e sto benissimo e Obiezione Respinta hanno creato un network virtuale su telegram in cui poter condividere dati e informazioni circa le strutture del sistema sanitario nazionale dove era possibile abortire. L’interruzione di gravidanza, durante l’emergenza sanitaria, è stato uno dei servizi medici più penalizzati, dal momento che già in tempi pre-pandemici l’obiezione di coscienza si poneva come un enorme ostacolo in numerose regioni del Paese.
Dello stesso virtuoso tenore è l’esperienza della Consultoria autogestita FAM, nata quest’anno a Torino e che, tra i vari servizi, offre accoglienza tra pari, visite ginecologiche e ostetriche accessibili, supporto psicologico, consulti per certificazione di gravidanza finalizzata alla prenotazione dell’IVG in ospedale, adottando un approccio transfemminista condiviso.
Allo stesso modo, negli Stati Uniti, che si trovano ora in un forte stato di allarme, organizzazioni come Abortionfunds.org, Aid access o Shout your abortion si sono mobilitate già prima del rovesciamento di Roe vs. Wade per sensibilizzare o offrire supporto alle donne impossibilitate ad abortire dalle leggi dei propri stati. Il gruppo Women on waves ha messo a disposizione imbarcazioni per permettere alle donne* statunitensi di abortire in acque internazionali, al di fuori dunque dei confini USA. Autonomous pelvic care ha dato vita a dei workshop di formazione online perchè le donne* potessero imparare ad autosomministrarsi farmaci abortivi e ha fornito, attraverso la piattaforma Plan C, la possibilità di reperire le pillole per posta.
Si tratta di operazioni collettive dal basso, che puntano a intessere relazioni proficue tra soggetti oppressi, sfruttando gli strumenti già esistenti o, in casi ancora più radicali, risemantizzandoli.
Do it yourself
Per citare la pornoattivista Rachele Borghi, professora di geografia sociale alla Sorbona, quando chiosa Audre Lorde: “non puoi distruggere la casa del padrone con gli strumenti del padrone, ma se riesci ad accedere alla sua cassetta degli attrezzi, glieli puoi tirare in faccia”. Quando parliamo di strumenti non ci riferiamo solo alle reti di relazioni mutualistiche umane, ma anche ad un insieme di tecnologie che, fino ad un certo punto, sono state di esclusiva proprietà della medicina ufficiale.
Riappropriarsi di tali tecnologie, imparare ad utilizzarle autonomamente ed insegnarlo alle proprie pari permette di abbattere quella barriera che separa le donne dal loro diritto ad autodeterminarsi, soprattutto in ambito sessuale e riproduttivo. Detenere il sapere medico e le sue tecniche equivale ad esercitare un controllo sui corpi che dovrebbero sottostare al potere del paradigma patriarcale. L’esproprio collettivo, associato a quello che Helen Hester chiama repurposing, apre una strada alla liberazione delle donne*.

A cominciare dallo speculum, sempre dagli anni ‘70, le femministe hanno riconquistato la conoscenza del proprio corpo e dei propri genitali con la semplice aggiunta di uno specchio per potersi osservare all’interno. L’utilizzo autonomo di quello strumento, che era l’emblema del potere ginecologico maschile, ha reso le donne* capaci di rendersi conto, attraverso la semplice osservazione, dello stato del proprio ciclo mestruale, dell’esordio di patologie o dell’inizio di una gravidanza, evitando pratiche più invasive o farmacologiche.
È del 1971 l’invenzione del Del-Em di Lorraine Rothman uno strumento di “estrazione mestruale” di facile assemblamento, composto da tubi di gomma, un barattolo di vetro con coperchio e una siringa, attraverso cui si può aspirare in una volta sola tutto il flusso mestruale ma anche interrompere una gravidanza, è uno dei più efficaci esempi di repurposing, ovvero di appropriazione strategica di una tecnologia in prospettiva transfemminista. I governi possono bandire l’aborto volontario ma di sicuro sarà molto più difficile bandire barattoli e tubi di gomma per acquari.
Il discorso ripropositivo si applica anche alle tecnologie farmacologiche: autosomministrarsi mifepristone e misoprostolo (“miso” e “mife”, o RU-486, ovvero i due principi attivi che inducono l’aborto) sarà la nuova – e forse unica – frontiera dell’interruzione di gravidanza casalinga a cui saranno constrette molte gestanti del mondo. I farmaci già circolano attraverso il sistema postale da uno stato all’altro, grazie alle organizzazioni di self-help, insieme ai saperi ad essi correlati: come assumere le pillole, cosa aspettarsi, come intervenire in caso di effetti collaterali.
Non torneremo indietro, perché nulla ormai è paragonabile agli abortion ban del passato. Oggi esiste internet, una immensa tecnologia di cui i movimenti femministi hanno già iniziato ad appropriarsi come una grande infrastruttura attraverso cui diffondere tutte le altre pratiche sopra elencate. Non solo, in prospettiva xenofemminista, la ricercatrice Alexandra Samuel parla di creazione di reti di telecomunicazione alternative per gli stati di emergenza, o mesh network (rete a maglie) peer-to-peer, e insiste sul fatto che tra le competenze da acquisire per il self-help figurino anche quelle informatiche e di reperimento dell’energia elettrica. Oggi infatti, essere collegate dalla rete internet, corrisponde ad uno strumento di sopravvivenza fondamentale.
E’ su questo ed altri modelli autonomi che le donne* dovranno basare la propria liberazione dagli schemi di genere oppressivi, consapevoli degli enormi limiti anche delle leggi pro-choice scritte da uomini in un mondo per uomini. Risignificando l’idea di clandestinità, giacché in un contesto ostile la clandestinità corrisponde a resistenza, alternativa, sopravvivenza, si potrà immaginare collettivamente una declinazione diretta dell’azione transfemminista, forte e massiccia, agita da reti sempre più ampie, capillari e difficili da intercettare e ostacolare. L’appropriazione strategica è un primo passo che deve puntare a trasformare, sul lungo periodo, sistemi disciplinari e politici in maniera duratura.
Hai letto: Manuale di aborto clandestino