Se esiste un destino, una forza che regola il cosmo, allora il connubio tra Hans Zimmer e Nolan in Interstellar è riuscito a fare un miracolo.
Sono a piede libero, entrano nei nostri sogni, ci riportano a episodi dimenticati della storia, danno nuova vita agli eroi di intere generazioni, ci proiettano in mondi lontani, in nuove dimensioni… Ogni volta che l’associazione a delinquere Nolan-Zimmer si riunisce per appallottolarci le sinapsi, colpisce scoprire che i prodotti dei loro crimini si possano ascoltare almeno quanto si possano guardare. Ma proprio lì, sul confine invisibile tra pellicola e pentagramma, è forse con Interstellar (id., 2014) che i due si sono spinti fin quasi a cancellare la differenza tra il musicare un film e il rappresentare una musica.
La strada di casa
Secondo una diceria molto antipatica, il tempo sarebbe un’invenzione degli orologiai per venderci gli orologi. Ora, che la causa di metà dei nostri interrogativi esistenziali sia da attribuire a un’intera categoria produttiva è tutto da verificare. Il dato certo è che a guadagnarci è anche tutta quell’arte che ci ha attaccato l’ossessione per i cicli, per i mutamenti e per il ticchettio delle lancette. Quando ci troviamo di fronte alla musica che rappresenta il tempo, giocando un po’ a interpretare sé stessa, proviamo lo stesso stupore perplesso di quelle volte in cui ci accorgiamo di star respirando. Il minimalismo mistico in cui si stratifica la colonna sonora di Interstellar ci porta fin dalle prime note in un universo fatto di sole scansioni temporali, talmente pure e sconfinate da caricarsi ogni volta dei diversi significati che vogliamo attribuirvi – in sintonia con l’idea del non detto che è il fulcro del cinema di Nolan. Ma, oltre a contemplarne il perpetuo scorrere, in questo pezzo d’arte sonora si annidano intuizioni dalle radici lontane e dai risvolti inediti.
La voce del cosmo
Parliamo del tema principale, dove l’organo si esprime in quei rintocchi cristallini che conosciamo tutti, quasi i beep di una macchina per l’elettrocardiogramma, mentre i bassi respirano profondi, lasciando percepire il suono dell’aria in uscita dalle canne. Questo motivo è un mantra recitato da uno strumento musicale, uno strumento scelto non certo per il cliché liturgico, bensì per la sua natura meccanica e incorporea, che lo rende adatto a impersonare la voce del cosmo e lo scorrere del tempo. I suoi movimenti si mescolano a un pianoforte delicato mentre l’orchestra si comporta come un sintetizzatore, entrando compatta e graduale.
In questa struttura fatta di tanti livelli complementari emergono chiari riferimenti al Philip Glass di Mad Rush o al John Adams di Phrygian Gates nella ricerca di uno stato quasi ipnotico, innescato dalla perpetua ripetizione e sovrapposizione di elementi semplici e delicati, pensati appositamente per non avere una direzione propria se non all’interno di una moltitudine che si comporti come un organismo unico. Proprio in questo frangente ci accorgiamo che qualunque alternativa a questa estetica minimal nel senso più profondo sarebbe stata fuorviante rispetto alle immagini e ai significati del film; anzi, la sorpresa sta proprio nel vedere come una concezione musicale che ha ormai diversi decenni di storia riesca ancora a stupirci, a contrastare con la nostra umanità sempre più mobile e spaventata, a riportarci a una sfera panica di connessione con i moti dell’universo.
Tic-tac, tic-tac…
Insomma, pochi minuti di musica e già ci accorgiamo che la fantascienza – e tutto il cinema per estensione – è irreversibilmente cambiata. La grandezza sinfonica che un tempo accompagnava le epiche trame spaziali lascia il posto a una dimensione contenuta e inviolabile, dove la piccola esperienza umana non può che accettare di essere del tutto ininfluente. E, di certo, come per la scena sul pianeta acquatico di Miller, Hans Zimmer non perde occasione per calcare la mano: lontani dai ritmi incalzanti della trilogia del Cavaliere Oscuro (Christopher Nolan, 2005-2008-2012) e di Inception (id., 2010), uno dei rari momenti in cui assaggiamo le percussioni – un semplice ticchettio –, queste scandiscono regolari la percezione del tempo da parte dei personaggi, inizialmente dilatatissima e man mano più incalzante nel momento in cui questi capiscono di dover sfuggire in fretta alle onde chilometriche che spazzano la superficie del pianeta.
Ma, all’infuori di questa pulsazione ritmica, la musica ignora completamente gli umani, esaltando la magnificenza delle onde con linee sonore che da acute e sottili si riempiono poi degli accordi potenti di organo e ripieno orchestrale, seguendone il movimento dall’orizzonte fino al punto in cui la navicella ne rimane travolta.D’altra parte, la stessa indifferenza della natura verso di noi o meglio, la trascurabilità della nostra esistenza è il nocciolo stesso della trama: la Terra cessa di essere la nostra casa e si rivela un pianeta come gli altri nel momento in cui la malattia delle coltivazioni costringe il genere umano ad abbandonarla per sempre e a costruire una stazione artificiale sulla quale viaggiare verso un nuovo mondo. Lo stesso buco nero, con il tesseract dal quale Cooper invia dei messaggi indietro nel tempo, non è che un dispositivo costruito dagli umani del futuro, tutt’altro che il frutto spontaneo delle leggi fisiche.
In qualche misura qui il cosmo, la natura e le loro meccaniche sono rappresentate non tanto dalle immagini quanto dalla musica che, seguendo semplicemente la concitazione o la distensione degli eventi, ignorando l’emotività delle scene, ci dà l’impressione di originarsi dal tessuto stesso dello spazio piuttosto che dallo studio di registrazione nella quale è stata prodotta.
La via d’uscita
Il film e la sua colonna sonora rilevano il cambio di prospettiva sia nei nostri stessi confronti che in quelli della realtà che ci circonda. Ormai nessuno, specie a sei anni dall’uscita del film, ignora davvero i cambiamenti che sta subendo il clima della Terra insieme alla sua biosfera e al contempo si fa realmente più concreta la prospettiva di spingerci al di fuori del nostro pianeta per esplorare il Sistema Solare, col fine di colonizzarlo in un remoto futuro.
In sostanza, questa pellicola ci accompagna in un passaggio della nostra storia in cui realizziamo per la prima volta dopo millenni di non essere così tanto creati a immagine e somiglianza di una divinità e che la nostra esistenza è importante solo rispetto alla nostra percezione, compiendo un primo timido passo per uscire dal confortevole centro dell’universo in cui non abbiamo mai davvero smesso di immaginarci.Sicuramente per riportare tutto questo in film serve una rara profondità di pensiero. E forse ne serve ancora di più per riuscire a renderlo in musica. Bel colpo Hans.
Hai letto: La consonanza Nolan-Zimmer che dà voce all’iperspazio