L’ipnotico postmoderno degli Strokes in “The New Abnormal”

Per prepararsi alla nuova normalità proponiamo una recensione di The New Abnormal di The Strokes.

Alessandro Aimone cat

Ok, iniziamo da lontano…“I just wanted to be one of the Strokes” è la prima linea di testo che apre il meraviglioso Tranquility Base Hotel and Casino (Arctic Monkeys, 2018) e, forse, non servirebbe aggiungere altro per raccontare quanto peso abbia avuto la band newyorkese sulla scena musicale degli ultimi 20 anni. Quando un personaggio vulcanico come Alex Turner rivendica la sua paternità musicale, non si può che ricollegare a tutta la rete dell’indie rock, genere capace di imporsi in questo inizio secolo non solo come prodotto composto da adolescenti anticonformisti per un pubblico di alternativi. Ma come la naturale evoluzione della musica d’autore in lingua inglese, che arriva al suo apice con The New Abnormal, il nuovo album in studio degli Strokes.

E in questa rete, appunto, uno dei cardini portanti sono proprio gli Strokes. Il loro cd d’esordio, Is This It?, fu per il 2001 una finestra di immediatezza, di novità e stile, con singoli che ancora oggi sono manifesto, Hard to explain e The Modern Age su tutti.

La band si dannò per anni inseguendo il suo stesso successo, partorendo due album estremamente validi ma che non riuscirono mai a superare fino in fondo la struttura compositiva della loro prima pubblicazione. Gli stilemi, ormai sedimentati, vedevano brani relativamente brevi, dominati dalla voce graffiante di Julian Casablancas, insieme alla quale una sezione ritmica, scarna ma dal ritmo sostenuto, era l’impalcatura di una fitta tessitura di riff di chitarra, interlacciati e sovrapposti.

Attraverso anni difficili

Gli anni recenti sono un grande turbinio: scioglimenti, ripensamenti, fallimentari carriere soliste e radicali cambi di sound si sono susseguiti per lungo tempo, quasi come se l’esplosiva fama della band li avesse spinti all’affannosa ricerca dell’alternativa al conformismo, nel quale erano stati costretti a cadere. L’abbandono del garage rock più puro, contestualmente alla pressione di ampie schiere di fans che, non riconoscendosi più nei brani, auspicavano ad un ritorno alle origini, minarono la stabilità interna dei cinque.

Si passò dunque per le contaminazioni digitali di Angles, ottimo seppur acerbo tentativo, con le sue atmosfere 8-bit e infine per il dolce retrò di Comedown Machine, lavoro osteggiato da molti, in quanto frutto per la prima volta di un cambiamento ideologico nella band newyorkese: non stabilimento di un canone, quanto più frutto delle mode e delle influenze.

Un cambio di rotta

Spiegando più nel dettaglio: per la prima volta a Casablancas e soci veniva imputato di aver tratto ispirazione dalle mode del momento e di aver adattato ad esse la composizione. Un processo inverso rispetto a quello così pulito e inossidabile degli esordi che non solo ignorava le classificazioni ma, anzi, provava ad inventare uno stile che avrebbe fatto scuola. Una spontaneità divenuta riferimento per emuli, fondata sulla chiarezza d’intenti, fattore ora oggettivamente assente dai piani della band, che risultava incapace di compiere questo superamento di sé così auspicato.

I recensori non risparmiarono aspre critiche ma il Metacritic risultò comunque positivo, forse per il nome che compariva in copertina che ispirò prudenza nei giudizi.

Passarono 6 lunghi anni di silenzio, inframezzati da un solo EP nel 2016 e permeati da una forte aura di disillusione che sempre più circondava la band (alla quale con troppo zelo era stata appiccicata l’etichetta di “finiti”) ma poi iniziarono a circolare le prime voci, addirittura eseguirono un nuovo brano dal vivo nel 2019: il sesto album degli Strokes era in arrivo.

The New Abnormal

The New Abnormal è strano sotto molti punti di vista. Arriva dopo 20 anni di carriera e suona come un cd d’esordio. Ha testi cinici, colmi di nichilismo e autoreferenzialità, eppure è dannatamente creativo e consapevole. Soprattutto è un prodotto figlio dei suoi tempi e delle tendenze attuali, ma con coscienza del passato, fatto che, inequivocabilmente, si ricollega agli Strokes. Suonare come se stessi cambiando quasi ogni coordinata di riferimento (almeno all’apparenza) è una sfida non da poco, ma gli Strokes l’hanno vinta ed ora vedremo il perché.

Un concept molto elaborato

Andiamo con ordine, partendo dal titolo.

Il “Nuovo Anormale” è una citazione diretta agli incendi che in questi anni hanno devastato la California, così frequenti che l’eccezionalità drammatica è diventata una consuetudine. Il titolo tuttavia assume nuove sfumature se calato nella quotidianità di questo 2020, fatto di pandemia e distanze.

I brani sono 9, dalla durata media lievemente incrementata rispetto ai lavori precedenti. Questo primo dettaglio suggerisce già una maggiore distensione nella composizione: gli spazi musicali sono infatti più dilatati, i suoni ovattati e morbidi e, spesso, le code dei brani sono lasciate con lunghi fade out .

L’apertura è affidata al singolo “Adults are Talking” che bene ci introduce alle atmosfere complessive. Benchè la prima impressione lasci senza dubbio sensazioni familiari, si percepisce fin da subito un tocco più pop, sognante e delicato mentre la voce è quasi sussurrata e a tratti fa uso del falsetto.

La vera rivoluzione arriva procedendo nell’ascolto, soprattutto nei pezzi “At the door” e nella chiusura di “Ode to the Mets”. Il silenzio viene rotto da suoni da videogame, da tastiere uscite direttamente dagli anni ‘80 e tutto è glam, decadente e sospeso, sopra un beat infarcito di drum machine. La voce gratta e arriva dal basso, così come dalla pancia si generano le parole che compongono i testi: un inno alla fine, un canto nichilista e creativo allo stesso tempo.

Il cuore dell’analisi

E’ proprio qui il cuore dell’analisi, il motivo per cui The New Abnormal è un cd che verrà ricordato.

Se da un lato è innegabile che la glitter-mania che ci ha reso nuovamente prede per immaginari future-retro, che tanto bene si calano nel mondo odierno (gli esempi in cinema, musica e moda si sprecano negli ultimi anni) abbia ispirato questa svolta synth-pop degli Strokes, è vero innanzitutto che il tono è molto diverso dall’esaltazione dell’eccesso, del lucido vinile e dei laser di progetti come Simulation Theory (Muse, 2018). La declinazione è personale, ritmica e minimalista e ripesca a piene mani dai 20 anni di carriera della band, con citazioni dirette nei testi (il ritornello di At the door che fa il verso a Call it Fate/Call it Karma) e una sfacciataggine che rompe la quarta parete (emblematico il ”drums, please, Fab” che introduce l’ingresso della batteria in Ode to the Mets).

La crisi della modernità è messa alla gogna con sarcasmo e disillusione, il richiamo al passato è malinconia avvolgente.

Tra meticolosa ricerca e citazione

Le sonorità che, come accennato, svoltano verso l’indie e il pop, sanno sorprendere anche dopo numerosi ascolti. La patina anticata rimane e questa volta, si può dire, i tributi vanno a coloro che meglio hanno saputo inaugurare questa stagione: gli Arctic Monkeys.

Il cd suona fresco ed originale, mescolando l’interminabile ritornello e l’ottimismo di Brooklin Bridge to Chorus (dal testo tutt’altro che allegro, tuttavia), il sound chitarroso di Bad Decisions e la sorprendente Eternal Summer, dalle forti influenze Tame Impala, dove una potente linea di basso, accompagnata dal falsetto più marcato del cd, apre su un ritornello che cambia le carte in tavola: graffiante, sporco, un grido di dolore dissonante contro il tempo sospeso ed immobile dell’estate eterna che ci attenderà col riscaldamento globale. Da sottolineare che la melodia del preritornello è una citazione diretta degli Psychedelic Furs di “A Ghost in You” e l’inganno viene svelato da uno “psychedelic”, cantato distintamente proprio in quel momento.

Un complicato equilibrio tra nichilismo e creazione

Consapevolezza, gioco, citazione ma anche sperimentazione, bifrontismo e critica all’attualità, tutto questo è molto presente nella sesta fatica degli Strokes, un fertile postmoderno. La magia è dunque riuscita questa volta ma, viene da chiedersi, a quale prezzo e con quali dinamiche?

Ed è proprio qui che il nichilismo citato in apertura entra in gioco. La lettura che ne fa la band non è solo quella ambientale ma anche personale, e questo aspetto viene rivelato dai testi.

Nella già citata At the Door (accompagnata da un videoclip animato meraviglioso) il bridge recita letteralmente:

Hard to fight what I can’t see, not trying to build no dynasty

I can’t see beyond this wall

But we lost this game so many times before

Il rifiuto della loro stessa eredità, del peso delle aspettative e dei lunghi anni di dissidi riemergono in poche, penetranti parole, lanciando anche fosche ombre sul futuro della band.

E ancora in Brooklyn:

A lifetime of giving my all for you

(Hostile, give me a break,don’t say it’s in the bottle of air)

(…)

I want new friends, but they don’t want me

They have some fun, but then they just leave

Adults are Talking:

They will blame us, crucify and shame us

We can’t help it if we are a problem

We are tryin’ hard to get your attention

Il commiato

Il pezzo dove emerge con più forza la tematica è quello conclusivo, Ode to the Mets, che oltre a suonare come una ballata d’addio, depressa e finalistica, non usa mezze parole per esprimersi nel testo.

Come band:

I’m gonna say what’s on my mind

Then I’ll walk out, then I’ll feel fine”

Come scelte musicali:

I was just bored playin’ the guitar

Learned all your tricks, wasn’t too hard

It’s the last one now, I can promise you that

I’m gonna find out the truth when I get back”

E infine il commiato, che si commenta da solo:

“The Rubix cube isn’t solving for us

Old friends, long forgotten

The old ways at the bottom of the ocean now has swallowed

The only thing that’s left is us, so pardon the silence that you’re hearing

Is turning into a deafening, painful, shameful roar


Poche volte si trova un poetica così chiaramente esposta e coerente col contenuto dell’ascolto. Proprio questo è il motivo che rende 9 pezzi un cd vero e non un tentativo; proprio questo è ciò che ha reso gli Strokes il simbolo che sono oggi, ben oltre il semplice garage rock. Che sia un vero saluto alle scene del quintetto o, forse, solo un nuovo sfolgorante inizio, poco importa: The New Abnormal è qui per restare (a lungo) nelle nostre playlist.

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