The Spell of Ducks hanno deciso di non mollare, e prosegue la voglia di fare musica, ce l’hanno raccontato in questa intervista.
Ho avuto modo di fare due parole con Ivan, il frontman di The Spell of Ducks, mentre erano in viaggio verso Venezia. La loro traccia ‘Sailor Man’ è stata infatti scelta come colonna sonora di Una finestra non è abbastanza (Margherita Caravello, 2020) cortometraggio in concorso alla 77° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Me li sono immaginati alla guida di uno di quei vecchi furgoni della Volkswagen sommersi di strumenti e valige, spensierati e con la voglia di spaccare il mondo.
L’avventura di The Spell of Ducks inizia nel 2015. Dopo cinque anni avete percorso una strada ricca d’esperienze, come Fiat Music e Apolide Festival. Com’è stato il percorso?
Il progetto è nato un po’ per gioco tra Andrea e me. Ci divertiva scrivere le melodie che avevamo in testa e piano piano si è formato il gruppo che siamo oggi. Il percorso è stato appagante e, nonostante tutti quanti continuiamo ad avere altri lavori per poterci sostenere, possiamo dire che negli anni qualche soddisfazione ce la siamo tolta. Abbiamo pubblicato tre dischi, giochiamo sul serio.
Come avete portato avanti la realizzazione del disco durante i mesi di lockdown? Molti artisti hanno deciso di rimandare le loro uscite perché non potevano suonare live, invece voi siete riusciti a proseguire. Qual è il vostro segreto?
Il lockdown è stata un’esperienza complessa. Abbiamo continuato a lavorare sul disco a distanza, via webcam. Chiaramente sviluppare idee e confrontarsi è stato difficile, ma abbiamo portato a termine la produzione del disco. Possiamo dire di essere stati fortunati: subito dopo la fine dell’emergenza abbiamo ottenuto diverse date per i live. I live sono la dimensione in cui riusciamo ad esprimerci meglio, sono l’occasione da cui l’intera band trae forza. Vogliamo fare di tutto questo il nostro lavoro, ed è per questo che abbiamo deciso di non fermarci nonostante la situazione di crisi. Nessun segreto, è una questione di determinazione e scelta.
Il vostro ultimo disco si chiama “Ci vediamo a casa”. È azzardato definirlo un lavoro d’artigianato?
No, anzi è una definizione che rientra in quello che facciamo. Inizialmente le sonorità più folk non erano così marcate e scrivevamo testi in inglese. Il disco in questione rappresenta sicuramente un cambiamento per la band: abbiamo aggiunto nuovi strumenti, in particolare la tromba, ed è cantato per lo più in italiano.
Ma quindi ‘casa’ dov’è?
Bella domanda! Casa è ovunque si possa fare musica, dove si può suonare e avere la libertà di esprimersi. Non intendiamo le quattro mura domestiche, ma un posto nel mondo che ti appartenga e dal quale puoi ricevere tutto quello che ti serve emotivamente.
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