Mank è il cinema per la post-verità

Nell’omaggio di Fincher a Orson Welles la storia dello sceneggiatore Mank diviene leggenda e svela il potere del cinema come propaganda.

Alessandro Aimone Cat

Scegliere il soggetto di un film è sempre un’operazione molto personale e sentita da parte di un regista, specialmente quando, come in questo caso, la gestazione di un’opera dura quasi una carriera intera. Fincher, infatti, pensò a Mank già 30 anni fa, salvo poi, per un motivo o per l’altro, dover attendere la libertà garantitagli da Netflix per produrlo esattamente come desiderava: senza tagli, senza censure e in un sontuoso bianco e nero.

Lontano dalle richieste della sala e delle major, Fincher compone un film a tratti lento e riflessivo, a tratti scandito da un fiume di battute dal ritmo indiavolato, che costringono lo spettatore ad interrompere la visione per riflettere, a tornare indietro per riascoltare o a fare ricerche su internet su un dato personaggio (sfruttando appieno il mezzo di distribuzione home cinema, azione non possibile in una sala). Il regista non scende a compromessi: vuole un pubblico che conosca innanzitutto Quarto Potere (Orson Welles, 1941), su cui è basata l’intera vicenda. Ogni situazione che il film ci propone sarà una rielaborazione di Mankowitz nel suo personale atto di accusa contro Hearst, il magnate che ispirò la figura del Cittadino Kane. Il film, e stiamo parlando in realtà di entrambe le pellicole, è tuttavia molto di più di questo. Vi confluiranno la personalità irascibile e vanesia di Orson Welles, la situazione sociopolitica della Hollywood anni 30 durante la crisi bancaria e, soprattutto, un ricco numero di comprimari come il viscido tirapiedi Mayer o l’incantevole e candida Marion, ognuno con la sua storia e la sua verità da raccontare. 

Un dialogo tra piani 

Il film è costruito tramite l’alternanza di due linee temporali. La prima vede il protagonista costretto in un appartamento alle prese con la scrittura della sceneggiatura, la seconda, nel passato, si snoda per un maggior numero di mesi e mostra cronologicamente le vicende e gli incontri che lo segnarono durante quegli anni. Ogni gesto, ogni azione sarà propedeutica alla stesura del testo, che diventerà sia l’opera della vita per Mank, sia narrazione della sua vita stessa. E’ curioso al riguardo che il passato venga sempre introdotto da una schermata battuta a macchina, come se lo spettatore stesse leggendo l’apertura della scena direttamente dal copione.

Questo piccolo tocco stilistico, oltre a trasportarci nella mente del protagonista che, costretto a letto sta dettando il testo e ripensa agli avvenimenti vissuti, sottolinea l’aderenza del suo prodotto con la storia. Le due linee, infatti, si incrociano nel finale, in quanto entrambe propedeutiche a far comprendere a chi guarda la gestazione di Quarto Potere, vero sottotesto narrativo. Un’altra limpida citazione al capolavoro wellesiano, che a sua volta procede spezzato tra il presente e i racconti del passato. A guidarci in entrambe è la figura dello sceneggiatore, presentato fin da subito come un personaggio ai limiti e dai numerosi vizi, dall’alcolismo al gioco d’azzardo: il regista ci mostra sempre il mondo filtrato dal suo giudizio e dalla sua prospettiva. Mank è vulcanico e sboccato, ma allo stesso tempo assume la connotazione dell’eroe, del campione della verità all’interno del mondo di giochi politici e servilismo della Hollywood dell’epoca. Da un lato, Fincher guarda a quei tempi con fascinazione (e lo si percepisce dalla cura maniacale nella ricostruzione storica, tipica dei suoi lavori) dall’altro con ironia e occhio critico. Il tempo infatti non è l’unica chiave proposta ma ve ne sono almeno altre due: la politica e la società.  

Una piccola digressione è dovuta anche per quanto riguarda l’aspetto tecnico, benché non rappresenti il fine principale di questa analisi, in quanto rapporto rilevante tra la citazione e l’autorialità. Come detto, il bianco e nero era una necessità inevitabile per Fincher, una scelta artistica per raffigurare al meglio la realtà quotidiana del periodo storico. Questo farebbe propendere per una tendenza al realismo, uniforme lungo tutta la pellicola, ma vi sono in realtà nascosti omaggi tecnici al capolavoro di Welles, dalla profondità di campo nelle tavolate e negli ambienti (dove da una stanza si intravedono altri spazi) al montaggio frenetico e creativo (che emerge soprattutto nella scena del ballottaggio elettorale durante la serata di gala) e nella ricerca di piccoli sintomi o dettagli da far intravedere allo spettatore. Esempi significativi le bottiglie di sonnifero scambiate con alcool, lo stesso alcool bevuto sottobanco da Marion alla tavola di Hearst, il dettaglio dei proiettili consegnati a Mank dal suo collega. Seppur lontano dalle cifre barocche ed espressioniste del Welles regista, a Fincher piace giocare con attente citazioni (ad esempio l’uso delle diagonali per trasmettere tensione), nonché insistere sulla bicromia a forte contrasto, come nel litigio finale tra Welles e Mank stesso, per edulcorare la drammaticità della scena. 

Una questione politica

Buona parte delle vicende di Mank ruotano intorno ad un fatto storico: le elezioni politiche in California del 1934. La casa Metro Goldwyn Mayer, collusa col partito repubblicano proprio grazie ai soldi e all’influenza di Hearst, sabota la campagna del concorrente democratico grazie a corti promozionali pieni di notizie false e propaganda. Questa è una rivoluzione del mezzo tecnico cinematografico in America, ora strumento di controllo delle masse non istruite e, soprattutto, al servizio del potente e non proprietà artistica dei creatori. Il conflitto di interessi è inizialmente osteggiato da Mank che poi si ritrova, suo malgrado, artefice stesso della proposta incriminante. Ben conscio del potere delle immagini e della narrazione tutta, è proprio lui a suggerire alla MGM di utilizzare il cinema come strumento di azione sociale.

Rifiutando poi di dirigere i corti stessi, la responsabilità ricade su un suo collega che, disposto a tutto pur di abbracciare un’occasione di carriera, accetta l’ingrato compito. Resosi conto di ciò che ha fatto arriverà nel finale a togliersi la vita e proprio questo senso di colpa e di fallimento saranno la scintilla che permetterà a Mank di iniziare la stesura della sceneggiatura. Da notare come nell’occasione il protagonista stesso diventi il simbolo che da sempre ha osteggiato, il “quarto potere” che guida la società (concetto che il titolo italiano enfatizza a dispetto del più neutro Citizen Kane in originale), dimostrando quanti livelli di lettura confluiscano nel suo lavoro. Altri punti chiave della lettura politica sono senza dubbio i due dialoghi nel finale: il primo messo in bocca a Mank che, distrutto dall’ubriachezza e dal senso di sconfitta, pronuncia un sermone su Don Chisciotte, mentre il secondo in risposta da Hearst è la storia della scimmietta ammaestrata.

Il sottosopra

Mank ribalta completamente la vicenda del capolavoro di Cervantes, offrendone una visione cupa e ridicolizzata per mettere alla berlina il magnate che ha di fronte. Pensandolo come un copione per un nuovo film, il nobile spagnolo è ora un giornalista menzognero che finge falsi ideali per avvicinarsi alla gente, per essere amato ed eventualmente eletto. La lotta per l’ideale, goffa e inutile quanto pura, ora è diventata quella contro i moderni mulini a vento: il pubblico da persuadere con l’inganno di promesse socialiste ed egualitarie. Il fine è l’appropriazione del potere, ma la finzione non frutta il risultato sperato. Non resta altro allo sconfitto che ritirarsi con l’amata Dulcinea (l’attrice Marion) nel mondo fatato che il suo scudiero Sancho (il produttore Thalberg) ha approntato: villa Hearst nella storia, quella che diventerà Xanadu nel futuro copione.

L’esito sono pertanto l’odio e le menzogne che hanno sconfitto un candidato alle elezioni e spinto al suicidio un onesto autore. Il violento accusatorio di Mank ha allo stesso tempo scoperchiato la verità e scritto la trama di un film che avrebbe cambiato il cinema per sempre. Il salvatore è un ubriaco che lotta contro l’inganno, il diverso in un mondo di ricchi assetati solamente di potere. Mank è il vero Don Chisciotte, eroe tragico ed incompreso, dimenticato dalla storia e dalle copertine. Proprio in questo momento di massima tensione si configura l’inutilità della lotta del protagonista. Hearst, con un arguto paragone, lo identifica con una scimmietta ammaestrata, vestita di tutto punto. Mentre l’animaletto è convinto di poter comandare il padrone, suonando per la gente ed essendo responsabile dei guadagni di quest’ultimo, non si accorge che è proprio lui a possedere sia i vestiti che il guinzaglio che lo controlla. Un finale amaro che apre una duplice prospettiva per Mank. Se da un lato si rende conto di quanto ogni suo eccesso fosse stato pensato e previsto dal sistema, rendendo di fatto inutile la sua protesta, dall’altro capisce che solo tramite l’arte sarà possibile attaccare il suo nemico: è giunto il tempo di stendere il copione di Quarto Potere

Tra verità e finzione

Proprio il finale del film è un punto di enorme interesse e attualizzazione. Fincher, come già evidenziato in altre attente analisi intrattiene da sempre un maniacale rapporto con il tema della verità, e quasi ogni sua opera lo affronta da un differente punto di vista. Mentre in alcune questa si disvela(Seven, Alien3, Fight Club) o viene proposta una soluzione a grandi quesiti (Zodiac), nei suoi più recenti prodotti il moltiplicarsi dei punti di vista e delle voci in scena fa sì che essa non sia univoca o perlomeno che, anche se chiara per lo spettatore, non sia altrettanto nell’esito dell’intreccio (Gone Girl, The Social Network e MIllenium). Mank è un film biografico che parla di un passato remoto e piega la verità storica per darci degli insegnamenti molto forti. Fincher produce una ricostruzione in gran parte fedele, alterando tuttavia alcuni dettagli essenziali. Se è vero che Mank fece vincere l’unico Oscar nella breve carriera di Welles con il suo lavoro, è altrettanto vero che non fu l’unico artefice della sceneggiatura, figlia piuttosto di un lavoro “a quattro mani”.

Inoltre, l’aggiunta del fittizio caso di suicidio e l’insistenza sul tema del ricordo, conferiscono maggior lirismo alla pellicola, regalandole un sapore noir. La scelta di Gary Oldman per il ruolo chiave poi, attore molto più anziano rispetto al vero Mank, è attuata consapevolmente da Fincher. Le più grandi invenzioni sono, infatti, tutte volte ad accrescere l’aura di rettitudine morale del protagonista per narrare le sue sventure : la sua proposta a Thalberg di girare i cinegiornali, l’aneddoto del salvataggio degli ebrei e persino i dialoghi finali con Hearst sono tutti artefatti. Anche le figure di Welles stesso e dell’antagonista Mayer sono rese a tinte fosche, mostrandoli più come maschere inacidite, caricature delle loro reali personalità. Benché ciò sia spiegabile con il fatto che noi percepiamo la narrazione dal punto di vista di Mank e forse anche come un plot device per spiegare le ispirazioni del protagonista, è innegabile una manipolazione dall’alto. Questa azione è stata compiuta da Fincher per due motivi, tanto attuali quanto una pubblicazione del film 30 anni fa non avrebbe mai potuto essere.

Il primo di questi è senza dubbio una messa in guardia e una presa di posizione contro la post-verità che in questi giorni affolla le notizie di cronaca, richiamando ancora una volta il fil rouge con Quarto Potere. Così come l’inganno smosse le coscienze e i voti nel ‘34 e sancì l’ascesa di un giornalista assetato di potere, così oggi tragicamente intasa i canali televisivi e mediatici, proiettandoci in un mondo dove è sempre più difficile distinguere la fattualità dall’interpretazione.
Questo gioco del regista diventa una versione di quella verità che toccherà allo spettatore svelare, ricercando notizie o rimanendo preda della bugia. C’è tuttavia un secondo motivo che giustifica ancor più questa manipolazione, ed è quello di nobilitare la figura di Mank. Il film è interamente a lui intitolato e si pone come una testimonianza affinché questo ribelle e vulcanico artista non venga dimenticato nel flusso del tempo, schiacciato tra i grandi nomi con cui ha collaborato. C’è molto da imparare in fondo dalla rabbia di questo moderno Don Chisciotte o, se non altro, è questo il regalo che ci ha fatto Fincher con il suo film.

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