Il collettivo rap dei DAM ha gettato le basi per una resistenza artistica all’oppressione israeliana sul territorio palestinese.
Parlare di arte evitando il tema geopolitico e socioeconomico è un ‘Allegro Chirurgo per adulti’: un gioco poco serio e inefficace. E la cosa peggiora se vogliamo raccontare la Palestina di oggi e i suoi protagonisti. Quello di tuttə lə cittadinə palestinesi è un quotidiano immerso e dipendente dal difficile rapporto con Israele. E dopo settant’anni di ordinario conflitto, repressione ed esclusione, le ultime coreografie missilistiche sui cieli di Tel Aviv sono state in realtà un’eccezione rispetto a una normalità silenziosamente violenta. Una realtà di oppressione sia fisica che culturale, di imposizione brutale e muscolare.
In quel teatro duro e per noi poco immaginabile, lontanə dall’attenzione dei nostri media lə attivistə dell’arte non hanno mai rinunciato a raccontare la loro realtà, senza compromessi e calcolando ogni rischio. Pur senza rinunciare alle proprie radici, l’ambiente culturale dal post all’ipermoderno in Palestina cerca il respiro internazionale; la protesta e la chiamata all’azione dei versi di Mahmoud Darwish, la speranza e la denuncia socio-politica della lirica di Fadwa Tuqan, il canto del dolore e della speranza di Amal Murkus sono pezzi di un racconto universale dell’incertezza verso la propria identità come comunità di individui. Così versi e note uniscono l’urlo di tantə in un unico, potente appello rivolto al mondo che sta bene.
Per restare solida, questa resistenza ha sempre tenuto testa e orecchie ben aperte, vivendo di ricambi generazionali e aggiornando costantemente i propri mezzi. Così tra altre storie di incertezza e repressione, l’urlo dei violati dei ghetti cittadini da L.A. a New York, dagli Ottanta in poi, è riuscito a spingere rime e suoni campionati fino alle orecchie dellə giovani Palestinesi. Risultato? Una fioritura inedita di artistə e di una nuova cultura underground, con ampia diffusione nel mondo pan-arabo e crescente attenzione da parte dell’Occidente.
Gli inizi
I DAM1, registi e interpreti di questa scena, sono la crew Hip hop che dal ‘99 spinge i sub della comunità palestinese di Lod. Un primo nocciolo formato dai fratelli Tamer e Suher Nafall, subito raggiunti da Mahmoud Jreri e, nel 2015, da penna e voce di Maysa Daw.
I primi passi dei DAM sono quelli di tantə MC del Millenium bug: due fratelli, l’infanzia in un quartiere complicato, la ricerca di vie d’uscita alternative e la voglia di crescere esplorando le zone d’ombra. Così arriva immancabile l’iniziazione alle strofe di 2pac, insieme allo studio dell’inglese per poterne estrarre l’essenza e rivestirla della propria verità.
Dati i temi, gli ambienti e i personaggi dei loro testi è facile immaginare questi artisti come indissolubilmente legati al proprio contesto. Ma la musica dei DAM non parla di Palestina: le loro sono sempre state fotografie e cronache dello stesso mondo che abitiamo noi, ma osservato da un’angolazione in cui contrasti e oppressioni emergono più evidenti che altrove.
Dopo i primi singoli autoprodotti e un esordio tra live DIY e club della nicchia urbana in Israele, nel loro primo LP Dedication (2006) la traiettoria è già definita: dopo una traccia-prologo in apertura, la seconda – I don’t have freedom – parte con venti secondi di intro in puro Maqam arabo; le note di cristallo del kanun, la voce antica dell’oud. Insieme al suono ostinato dei tamburi, il coro chiede due volte:
«Ovunque vada vedo confini che imprigionano l’umanità/ Perché non posso essere libero come altri bambini in questo mondo?».
Poi l’attacco di un beat un po’ vecchia scuola e un po’ no – che a volume nominale ci trasforma la testa in un metronomo – e, finalmente, il flow di Tamer, Mahmood e Suhell.
Sopra un loop degli strumenti, la loro verità rima tra nostalgia di un futuro migliore e una rabbia ormai cementata nella coscienza. Ma la lotta non è contro un avversario diverso e dunque da annientare: la protesta di questi versi picchia sulle barriere in cui è rinchiusa la minoranza araba israeliana, separata dalle sue radici palestinesi con il filo spinato e privata della convivenza pacifica con Israele dalle parole della politica.
Perché l’occupazione allunga la sua mano «…non per la pace, non per l’uguaglianza, non per riparare le cose tra di noi (popoli, ndr.), ma per soffocarci…». Ma come per i diversi miti del mondo, personaggi e contesti diversi dal nostro parlano sempre e comunque dei nostri stessi problemi: il conflitto intrinseco del contemporaneo, l’imposizione di chi possiede il capitale economico e tecnologico; ma al contempo, il bisogno disperato di normalizzare i rapporti, quindi la società, e di aprire un dialogo che diventi col tempo una relazione.
E anche in questa realtà così banalmente violenta, la più importante consapevolezza resta che anche «…i più grandi eserciti del mondo sono deboli contro la speranza dei bambini.»
«…le nostre dita […] erano tutte puntate contro Eva…»
Ma la strada della crew era ancora lunga, anche se le prospettive già molto chiare. Perché elaborando il trauma della discriminazione si impara a riconoscerne intorno a sé tutte le sue declinazioni. Così l’impegno messo nei primi lavori porterà i DAM a estendere la loro lotta verso un’intersezionalità più inclusiva .
La rappresentazione femminile nel contesto sociopolitico si affaccia, anche se ancora acerba, già in Freedom for my Sisters, settima traccia di Dedication: rivolgendosi agli uomini, il mic di Tamer riflette sulla necessità di rendere la loro battaglia una battaglia per l’emancipazione e la liberazione di tuttə, mentre le rime Safa’ Hathooth rispondono dicendo che non le scuse, ma solo «…la tua azione […] curerà (le ferite, ndr.)…».
Ma toccare uno dei nervi più scoperti dell’oggi comporta una serie di responsabilità. La voce maschile del femminismo è naturalmente una componente fondamentale del dibattito, tutt’oggi ancora insufficiente sia per dimensioni che per forza. Ma se l’obbiettivo è davvero l’inclusione, serve rappresentanza diretta. E a nove anni dal primo CD, i tre di Lod hanno finalmente modo di colmare il loro vuoto: con l’ingresso di Maysa Daw – ormai divenuta front-person della band de facto – la stratificazione parità di genere/parità etnica può essere finalmente espressa di prima mano e, solo dopo, sostenuta collettivamente.
Daw – classe 92’ – ha una genesi da cantautrice folk-pop; la pasta musicale araba israeliana e le orecchie ben tese verso l’altrove. Oltre ai DAM, il primo album solista, Between city walls (2017), ritrae un’artista profonda, capace di restituire il dettaglio della propria realtà e dei suoi contorni emotivi con una tavolozza ricchissima, sospesa tra Est e Ovest. Con una profondità artistica così preziosa, il suo ingresso nel gruppo Hip hop svolta il gioco. E in quattro anni di lavoro insieme, il 2019 diventa l’anno della piena consapevolezza artistica e intellettuale.
Dal disco Ben Haana Wa Maana viene estratto il singolo EMTA NJAWZAK YAMMA («Quando ti sposeremo, Yama?»). Un po’ criticata per non essere dura e pura, un po’ hit di enorme successo, questa traccia rompe le sue stesse apparenze, dicendo molto, molto di più. Tutto di questo pezzo è rivolto contro i preconcetti. Non solo il testo, inno all’auto-affermazione contro il dogma del matrimonio e il dovere di ‘sistemarsi’, ma anche la musica esprime questo fastidio: la pelle è perfettamente Arab Pop; solo che invece dei tamburi abbiamo la drum machine, mentre il suono degli strumenti tradizionali viene gradualmente soppiantato dai synth.
La qualità artistica dei quattro sta proprio nella ricerca minuziosa per passare il messaggio su tutti i piani. Oltre a questo, il loro lavoro non spreca nessuna occasione – nemmeno in un pezzo da discoteca – per azionare la testa di chi ascolta: nel gioco dei DAM non è ammessa superficialità. Neanche se l’obiettivo è una hit estiva. Soprattutto per una hit estiva.
“…42, 200, 120 over 136”
Dicendola tutta, Ben Haana Wa Maana è una mina dopo l’altra.
Produzione e sound design incredibili, sempre tesi tra un approccio minimal e uno estremamente minimal – in questo senso, servono almeno dieci loop della struggente BrookLyd per uno degli assaggi più forti. Tanta ricerca di un suono dettagliato e dinamico, controcorrente rispetto all’Hip hop super saturo a cui siamo abituati. E anche in ambiente elettronico non si rinuncia né alle note scordate del maqam né ai suoni ancestrali dello strumentario tradizionale: perché dalla colonna sonora dipende la buona riuscita dello spettacolo. E questo riesce.
Il percorso tra le 13 tracce ormai è maturo; la consapevolezza è che temi lontani e astratti – l’oppressione, la parità, la libertà in tutte le sue accezioni – sono in realtà parti concrete e tangibili del proprio quotidiano: per parlarne, basta parlare di sé. Il racconto quindi va in prima persona e tocca tanti pezzi di vita personale, delle relazioni, delle proprie speranze, del passato. Ma tra i diversi temi, ne ritorna uno mai pienamente abbandonato fino in fondo ma finora mai approfondito: la dignità del proprio corpo.
JASADIK-HOM (Your body of theirs) è un monologo sopra un beat semplice e trasparente, pensato per far sentire chiare la parole di Maysa. Estratto come singolo, il pezzo non rivendica solo la proprietà del proprio corpo, il sentirsi a proprio agio per le sue unicità, il diritto a non oggettificarlo. Questa traccia è un richiamo deciso alle proprie responsabilità verso l’altro da sé. Perché parole, sguardi e mani non solo feriscono, ma costruiscono gabbie. Gabbie di ansia e depressione, gabbie di costrizione. Gabbie di paura.
Il piano dei DAM come artisti e, dunque, attivisti è disinnescare ogni sterile dibattito facendolo brillare: nella confusione di opinioni più o meno legittime, la via è mettere spalle al muro di fronte alla realtà, abbattere ogni alibi, tagliare la via di fuga. Perché esercitare il diritto di essere e di disporre di sé non può essere una battaglia, ma direttamente una riscossione. I quattro MC non sono soldati ma giustizieri. Il loro sguardo impassibile non accetta compromessi, ma offre una sola possibile soluzione: ‘lasciar essere’. Tuttə. In tutti i modi.
Quindi
La complessità del presente richiede risposte difficili, ma se c’è un principio che possa semplificare minimamente la faccenda, di sicuro è la partecipazione attiva. E in questo senso, nel presente dell’informe liquidità e della rigidità monolitica, i DAM ci danno uno spaccato di pensiero vivo e biodisponibile. Una manna non solo per rifarsi le orecchie con suoni e colori nuovi, ma soprattutto per chiunque volesse capire un po’ di più quello scenario solo apparentemente lontano, ma che in realtà può dirci tanto del nostro presente, del nostro mondo e dell’umanità stessa.
Note
1. I DAM fanno tanto parlare di sé ormai in molti paesi anche fuori dalla sfera culturale araba, nonostante la barriera linguistica per noi possa essere un ostacolo. Per ovviare, su alcuni siti si può trovare l’integrale dei loro testi con traduzione ufficiale in inglese – più facile –. Per tutto il resto, state connessi.
Hai letto: Rap palestinese: megafono della resistenza