“Un corpo reale non è meno virtuale di un corpo digitale, quello che cambia è la consistenza e la velocità dei cambiamenti che subisce, il ritmo della produzione”
La recente crisi medica globale che ha costretto a casa il mondo intero ha contribuito alla proliferazione di quella serie di movimenti che si potrebbero definire divenire digitale o virtuale. Dalla didattica a distanza allo smart working all’intrattenimento, tutto passa attraverso lo schermo. L’insieme delle nostre relazioni in un ammasso di pixel. La supremazia della video-comunicazione è stata resa palpabile come mai prima d’ora. La webcam è diventato il vero dispositivo dominante, tutto o quasi ne passa attraverso, deve essere ripreso. Ma affianco a questo fenomeno se ne presenta un altro che, pur condividendo tanti mezzi con il primo, sembra di natura affatto differente e per certi versi mette in discussione l’ormai scontato dominio dell’occhio: la creazione di immagini totalmente digitali, senza presupposti reali.
CGI in quarantena
Non è certo un nuovo fenomeno, ma è certamente in via d’espansione e ha raggiunto ora una misura così elevata da funzionare come un vero e proprio concorrente dell’immagine intesa nel suo senso tradizionale, almeno nel senso che è diventato classico dopo l’invenzione della fotografia. Nel settembre del 2020 la multinazionale Ikea ha deciso di affidare la sua immagine su territorio giapponese all’influencer Imma.gram.
Da alcuni anni è prassi comune per le aziende affidarsi alle social-stars per sponsorizzare i loro prodotti. La situazione inizia a farsi interessante appena si apprende che dietro Imma non c’è una persona, ma la ModelingCafe Inc, azienda specializzata nella modellazione 3D. Imma non è una persona come la intendiamo normalmente, le sue foto e i suoi video non sono creati attraverso l’utilizzo di un obiettivo. Imma è direttamente immagine, non è ripresa, ma fabbricata.

Il progetto Happiness at home with imma aveva l’obiettivo di promuovere un immaginario d’arredamento adatto ai piccoli spazi abitativi tipici delle metropoli giapponesi. La bolla edilizia scoppiata dopo la seconda guerra mondiale, in un clima di rinnovamento e ricostruzione, ha portato ad un proliferare di abitazioni cittadine, la cui dimensione è in media di 66 m2 nella prefettura di Tokyo, ma raggiunge talvolta dimensioni anche inferiori. Spazi così ridotti sono difficili da tollerare in condizioni drastiche come quelle prodotte dal COVID19; è stato perciò necessario produrre un dispositivo che la rendesse accettabile.
Per raggiungere tale scopo Imma è stata messa in quarantena. Decisione paradossale se pensiamo che Imma non corre nessun pericolo legato ai virus del mondo reale. Sono stati prodotti numerosi video che la ritraggono mentre svolge lavori domestici o in generale passa le sue giornate nel suo minuscolo appartamento. La campagna consisteva inoltre in un allestimento nella sede di Harajuko, dove era possibile, tramite l’accostamento di spazi fisici e virtuali, ammirare la piccola abitazione e il suo arredamento tutto firmato Ikea, i cui colori erano perfettamente abbinati con lo stile big bubble dell’influencer. Il caso di Imma non è certo isolato e appartiene ad una serie in continua espansione di soggetti-immagine totalmente digitali.
Nessun ambito dell’esperienza è al sicuro dalla progressiva virtualizzazione. Non solo la vista, ma anche l’udito è preso in questo movimento di de-attualizzazione. AI che riproducono perfettamente la voce umana non appartengono più al reame della fantascienza. Tali soggetti sono così convincenti che, senza uno sguardo approfondito alla loro storia e alla loro creazione, è impossibile distinguerli dalle loro controparti reali, quando ne hanno una. L’obsolescenza di un corpo che non sia digitale o digitalizzabile è evidente.
Tutto ciò non è ovviamente privo di conseguenze, la possibilità di produrre deepfake è uno degli esempi che subito viene in mente quando si pensa alle possibilità offerte da tali dispositivi. Tuttavia è evidente che il problema non può essere ridotto alla verosimiglianza dei prodotti in questione, ma appare in tutta la sua complessità solo quando si considera che, mentre il virtuale diventa sempre più reale, il reale ci appare sempre di più nella sua virtualità. Solo se si abbandona una posizione reazionaria che veda il mondo reale come sostanziale e vero e il mondo digitale come falso e artefatto è possibile aprire uno spazio critico e d’azione.
Il corpo virtuale di CodeMiko
Un caso pare in questi termini degno di un’analisi più approfondita, non perché sia unico nel suo genere, ma perché esemplifica la serie. CodeMiko è una streamer della famosa piattaforma di amazon Twitch e, si tratta, anche in questo, caso di una V-influencer. La sua creatrice si fa chiamare The Technician e si occupa di programmare l’ambiente in cui Miko si muove, oltre che lo stesso modello della streamer e l’animazione in tempo reale attraverso l’utilizzo di una tuta Xsense per il motion capture.

Miko e The Technician sono due persone differenti. Si riferiscono a se stesse in maniera differente e parlano in maniera differente. Miko non è un avatar nel senso tradizionale di significante, rappresentante, è un divenire altro, un movimento, un’azione non significante, non ha alcun valore rappresentativo, ma agisce e viene agita. L’identità in questo caso ha tutto di performativo, questa volta però a un livello superiore rispetto a quello che normalmente esperiamo, in cui anche il corpo è preso nella performance, ne è un prodotto e non un presupposto. Il corpo nel suo doppio virtuale si scopre anch’esso come campo d’azione, di costruzione. In un totale rovesciamento, non è più il reale a fornire un modello al virtuale, sempre che lo sia mai stato, ma viceversa.
Un corpo reale non è meno virtuale di un corpo digitale, quello che cambia è la consistenza e la velocità dei cambiamenti che subisce, il ritmo della produzione. Produzione che è sempre produzione di massa, che coinvolge una molteplicità. The Technician non è infatti l’unica star della sua performance. Chiunque abbia seguito una live su twitch conosce l’importanza che la chat ricopre, diventando spesso protagonista a tutti gli effetti di una live. Normalmente può interagire direttamente, non solo attraverso il testo, ma anche attraverso l’audio, con un sistema di donazioni è spesso possibile far riprodurre ad uno speaker diversi contenuti audio. Nel caso di Miko ovviamente l’orizzonte d’azione della chat è incredibilmente esteso, vista la natura completamente digitale dell’immagine a schermo. Gli utenti che seguono la diretta di Miko possono interagire, tramite le donazioni, con l’ambiente in Unreal Engine che la circonda e in alcuni casi con l’aspetto dello stesso modello di Miko. Si tratta di un campo d’azione collettivo, spesso disorganizzato e con un certo sapore anarchico.

Si assiste quindi ad un divenire surreale dell’ambiente. Proliferano le esplosioni, il moltiplicarsi delle entità a schermo e un accentuato divenire mostruoso del corpo di Miko, in cui poco rimane della caratterizzazione umana iniziale. Certo non manca il gusto della chat a sessualizzare l’avatar di Miko anche per soddisfare l’istinto pornografico della rete; eppure quest’ultimo presenta spesso risultati deformi, che poco riflettono il desiderio che li ha prodotti, talvolta sfidando la normale concezione estetica del corpo che normalmente consideriamo umano.
Un corpo del genere, così digitale, mostruoso e intensivo, supera ogni categorizzazione possibile. Le sue possibilità, poiché infinite, vengono continuamente agite e realizzate. Sembra funzionare in modo simile al corpo del cyborg di Donna Haraway, nel suo operato introduce dei malfunzionamenti nella macchina concettuale occidentale, in un continuo gioco di disgiunzioni inclusive e affermazioni. Usando questa similitudine non si vogliono certo nascondere i presupposti capitalisti attraverso cui questi eventi si svolgono. Va ricordato che il modo primario con cui è possibile interagire con Miko è attraverso un sistema di donazioni, e che Twitch è una proprietà di Amazon, una delle più ricche multinazionali al mondo. Inoltre, seppur il contenuto delle live non superi il tipico intrattenimento da epoca di internet, l’obiettivo è mettere in luce la potenzialità sovversiva di un corpo siffatto.

Dal momento che il potere sovversivo di un corpo duttile come quello di Miko è una questione d’azione e di massa, si possono distinguere due masse. La massa ordinata-estensiva: l’esercito o la processione, e la massa disordinata-intensiva: la chat, uno sciame di moscerini. Un corpo, oltreché agire, può essere agito in differenti modi. Il primo è in maniera ordinata, per riflettere gerarchie estetiche, di genere, politiche: cioè il corpo di Imma, del carcerato, del matto recluso. O può essere agito come massa intensiva, come fu in passato quello di Artaud. Questa disgiunzione è inclusiva, il che significa che un corpo è agito sempre in entrambi i modi.
La comparsa di corpi digitali mostra questa caratteristica di ogni corpo come campo. Oltre che ad aprire numerose possibilità di un divenire altro dall’umano e dell’umano. Ovviamente nulla impedisce che questi corpi duttili vengano utilizzati come dispositivi al servizio del potere. Il caso di Imma è emblematico da questo punto di vista: dal momento che promuove uno stile di vita consono al modello tardo-capitalistico di Tokio, dei canoni estetici e di genere precisi ed è pensata per sponsorizzare prodotti di alta moda.
Il pericolo che una macchina sovversiva come questa si trasformi nel suo opposto diabolico è un pericolo reale. Detto alla Deleuze, ogni rizoma, ovvero un evento orizzontale, rischia di cristallizzarsi in una struttura arborescente e dunque gerarchica, così come ogni opera d’arte rischia di diventare prodotto di un becero consumo. Possiamo addirittura affermare che questo possibile passaggio di soglia sia interno a qualunque tentativo rivoluzionario, dal momento che ogni massa rivoluzionaria rischia di divenire una massa fascista. Eppure l’invenzione rivoluzionaria di nuovi generi, pratiche ed estetiche che mettano in discussione i paradigmi vigenti diventa possibile ipoteticamente e auspicabilmente attraverso il divenire digitale.
Infiniti mondi 3D
La nostra analisi si è finora concentrata sul corpo virtuale e come questo permetta di ripensare i corpi reali nella loro virtualità, operando una sorta di inversione di prospettiva che mette in discussione la stessa dicotomia digitale-reale; tuttavia il corpo non esaurisce le possibilità di discussione che la modellazione 3D ci offre. Se c’è un corpo questo è sempre in un mondo ed è giunto il momento di parlare del mondo virtuale in cui corpi come quello di CodeMiko agiscono ed esperiscono.
È utile a questo proposito notare che l’obiettivo fotografico o cinematografico è stato certamente il modello iniziale della rivoluzione digitale e un ambiente virtuale è prima di tutto un’immagine, un insieme di immagini, che viene esperita attraverso uno schermo. Ma se è vero che “la fotografia si presenta come la tomba dell’occhio”, come afferma Jean‐Louis Comolli è vero anche che la modellazione 3D è allo stesso modo trionfo ed epitaffio della fotografia. La webcam sulla scrivania di Miko non è che un’immagine anch’essa, costruita come il resto dell’ambiente, non ha uno statuto differente rispetto al mondo-immagine che la ospita. Inoltre non è il dispositivo di produzione dell’immagine, è un artefatto di cui l’ambiente digitale potrebbe tranquillamente fare a meno. Un ambiente tridimensionale non necessita del punto di vista, della soggettiva, è un sorvolo, un campo immediatamente presente a se stesso nella sua interezza, tenuto insieme da codici e relazioni matematiche.
Esso è certo un’immagine, dal momento che è possibile vederlo, ma è un’immagine molto particolare. Non somiglia ad una fotografia o ad un video poiché l’obiettivo o la macchina da presa virtuale, non è parte integrante della sua essenza, ma resta solo come comodità per il designer o il fruitore. Se nel cinema ad esempio ciò che è catturato dall’obiettivo costituisce la totalità della realtà cinematografica, al contrario la videocamera virtuale in un programma per la modellazione o in un videogioco è una selezione, cioè una sezione della totalità del modello. L’ambiente è selezionato in base alla possibilità di agire o meno su di esso.
Un tale tipo di immagine non può che ricordarci l’elaborazione che di questo concetto effettua Bergson in Materia e memoria. Il problema di Bergson non era troppo diverso da quello attuale: elaborare un concetto di immagine che tenesse assieme due mondi apparentemente contraddittori. Da una parte c’è un mondo di immagini instabili, disposte attorno ad un centro privilegiato (l’occhio, la macchina da presa), e dall’altra un mondo privo di centro, il cui sistema di immagini si dispone senza la necessità di gravitare attorno ad un soggetto che lo percepisce. È in realtà una contraddizione apparente e facilmente risolvibile una volta compreso che il primo modello (quello centralizzato) non è altro che un processo di selezione svolto sul secondo modello da quell’immagine che è il mio corpo e dalla sua azione virtuale. Allo stesso modo un modello o un ambiente 3D sono selezionati per questioni di comodità, di fruizione o di azione.
Immergendosi in un videogioco open-world bisogna operare una distinzione, così verranno visualizzati a schermo solo gli oggetti vicini al PC controllato dal giocatore, quelli che effettivamente sono sotto-mano. Ma il visualizzato, l’elemento a schermo, è meno del mondo virtuale nella sua interezza e non può esserne il modello, questo è ancora più evidente in titoli come Dark Souls (2011), in cui il mondo è immediatamente caricato nella sua interezza e non viene renderizzato al passaggio del giocatore per risparmiare potenza di calcolo. Così ci troviamo nella condizione paradossale in cui un’immagine virtuale, pur restando immagine, possa superare il dominio del visivo da cui si origina.

L’occhio è stato reso obsoleto dalla fotografia che è stata resa obsoleta dall’immagine digitale.
La distanza che separa soggetto e oggetto è appiattita nell’orizzontalità infinita dell’immagine.
Diventa possibile così un nuovo ribaltamento: lo stesso dispositivo di ripresa è un’immagine come le altre, allo stesso modo in cui per Bergson il cervello non poteva divenire l’origine della percezione e quindi lo studio dei movimenti cerebrali non poteva dirci nulla sui modi dell’esperienza. Se “il cervello è un’immagine come le altre” allora il suo compito sarà quello di selezionare quella serie di immagini su cui è possibile agire.
Solo mettendo in luce il carattere di virtualità in ciò che chiamiamo naturale, e della natura in generale, è possibile una messa in discussione che sia anche pratica di trasformazione.
Il lavoro svolto finora è stato fatto con questo intento. Solo così è possibile instillare dei malfunzionamenti, intraprendere dei divenire, si apre la possibilità della rivoluzione. Una rivoluzione che consideri allo stesso modo lo stato e il corpo, il virtuale e il reale, il sesso e il genere, e che tenti di reinventare tanto un termine quanto l’altro.
Il fatto che non si riesca spesso a riconoscere un modello in CG da una persona o un ambiente reali non è solo un problema epistemico dovuto alla verosimiglianza del modello, ma al fatto che entrambi il reale e il virtuale condividono la caratteristica della produzione. Così l’esistenza di corpi e ambienti virtuali ci rende consapevoli della virtualità dei corpi e dei mondi che chiamiamo reali, oltre che aprire nuove possibilità pratiche. Ci impone un ripensamento totale di quello che normalmente si dà per scontato e della stessa normalità.
Hai letto: Codemiko. Pratiche per il superamento dell’occhio
In copertina: Un fotogramma da una Live Stream di Codemiko | Twitch
words: Entr’Acte