IDLES – Amare sé stessi, il nuovo rock e storie in anteprima

A breve fuori con Ultra Mono gli Idles stanno smuovendo il panorama del nuovo rock inglese.

Giuliano Comoglio

Succede che ancora una volta la scena britannica ci fa come svegliare in hang-over il giorno del nostro matrimonio o della laurea. Succede che sotto a dei travestimenti da canzoni si celino riti catartici celebrati al buio di una zona industriale, mentre la ritmica, l’abbaio degli amplificatori e le verità recitate con la più rotta delle voci cercano di prendere le nostre coscienze e di farne stracci.

In attesa di Ultra Mono

Come molti degli artisti vicini al post-punk/post-hardcore, gli IDLES rifiutano qualsiasi etichetta in quel senso; dunque con un sorriso e un profondo rispetto per questa posizione, diremo che quantomeno grazie alla loro arte, dopo molto tempo, il Rock è definitivamente tornato. Si mette parecchio male.

Si chiamerà Ultra Mono il terzo studio album degli IDLES – uscita programmata per il 25 settembre – e non facendo che peggiorare l’hype per il rilascio dell’opera completa, succede che i cinque di Bristol non hanno resistito a far trasudare almeno per ora quattro delle dodici tracce previste, ponendosi già in odore di fare un casino.

L’identikit è semplice: attivi dal 2009, alle spalle quattro album di cui due live e due prodotti in studio con la Partisan Records di Bombino e dei Cigarette After Sex – lo sarà anche quest’album –; nelle sonorità forti di questi signori si percepiscono gli anni passati a lavorare duramente di lima e a isolare il principio attivo di un linguaggio proprio, con un risultato difficile da circoscrivere se non con le maglie larghe di una parola chiave: verità.

Motivi

“… I’ll say what I mean, do what I love, and fuckin’ send it …“ 

Impegnati fin dall’inizio sul fronte socio-politico dell’arte, dalle questioni del machismo, della diversità come risorsa e dell’amore per sé stessi raccontate oltre che in questa anche nelle produzioni precedenti, il pretesto creativo adesso è la Brexit, appesantita nella seconda delle nuove tracce Grounds del fardello storico e culturale che costituisce uno dei principali argomenti della propaganda euroscettica britannica.

Il glorioso impero britannico di cui si paventa il ritorno è dipinto come il gigante di Jack e il fagiolo magico, a caccia non di ‘cristianucci’ ma di figli e figlie d’armi da fagocitare e il canto-parlato di Joe Talbot è roco e sarcastico mentre si prende gioco di chi, leggendo il conservatore The Sun – e restandone ‘abbagliato’ –, non riuscirà a catturare né lui, né tutti coloro che con la forza di un tuono si oppongono alla retorica neo-imperialista. 

Grounds

Ma è il sound design orientato a spremere lo spremibile, nonostante la semplicità dei mezzi, a dettar legge in questa faccenda.

Mentre l’arida ossatura è costituita dal groove incombente di Jon Beavis sotto all’orazione abbaiata di Talbot, tutto intorno saettano chitarre e basso, fondendosi tra loro in timbri molto più simili a quelli dei synth dei Daft Punk di Homework che alle chitarre dei Sex Pistols o dei Black Flag.         

Impulsi brevi e il più incisivi possibile, senza traccia di accordi o di strumming; le corde delle chitarre di Mark Bowen, Lee Kiernan e del basso di Adam Devonshire vengono metodicamente maltrattate una alla volta, facendole frustare contro i manici o allentandole per farle suonare come molle snervate, mentre delay e riverberi usati in modi tutt’altro che ortodossi ne processano il suono in modo da far dire loro cose che normalmente delle corde non potrebbero dire.

Grounds, poco da fare, va ascoltata tre volte: la prima a volume sostenuto e lasciando la testa libera di muoversi in banging sempre più ampi, la seconda sull’impianto più hi-fi che avete a disposizione per assaporare le minuziosità di questi suoni resi volutamente marci da un lavoro scientifico di estrema finezza e la terza volta, distanziamento sociale e misure sanitarie permettendo, pogando con tutte le vostre forze – mi raccomando, non fatevi male.

Un inno

“… I want to be loved / everybody does / shame … “

Dal pantano decisamente sperimentale di Grounds, sull’estremo bordo del mondo espressivo in cui la band si è sempre mossa, nella prima e nella quarta delle tracce in ordine di pubblicazione Mr. Motivator e Model Village ci sentiamo più a casa rispetto alla discografia precedente: una casa arredata in stile squisitamente post-punk nella prima e in cui nella seconda ritroviamo degli schemi sonori e narrativi già sentiti in Well Done, dal loro primo album Brutalism – signorile autocitazione.

Ma ecco che coerentemente all’atteggiamento evolutivo rispetto al proprio campo di azione, al riparo dalle zanne fameliche degli altri pezzi, gli IDLES infine ci portano in una dimensione sospesa di toni grigi e di luci lontane in cui sorge A Hymn, il pezzo più autenticamente riflessivo tra le anteprime fin’ora uscite di Ultra Mono e forse tra tutta la loro produzione in generale.

…un urlo

Un testo ipnotico e farneticato, come un flusso di coscienza; un’atmosfera in principio sospesa quasi un paesaggio post-atomico e man mano disturbata da interferenze e distorsioni come echi di sirene d’allarme sempre più vicine e incombenti. Sotto, un pattern costante di hi-hats leggeri e poi in un motorik lento e trascinato da metà del pezzo. Un altro mondo, ma il vettore creativo resta quello, riconoscibilissimo.

Gli accordi sono tacitamente nervosi, il colore denso e vaporoso nasconde dei fili tesi, che sappiamo andranno a spezzarsi sotto il carico della malinconia e dell’introspezione. 

Dalla geopolitica e i temi sociali, la recitazione vagamente intonata di Talbot punta i fari sul senso di vergogna che permea la nostra piccola esistenza quotidiana, la nostra sete di pubblico riconoscimento, il nostro bisogno di sentirci amati. Al “we made it”, a volte anche urlato in secondo piano, segue sempre e comunque “shame”, come il versetto di un salmo detto a testa bassa, con la bocca semi-chiusa.

Ci aspetteremmo delle esplosioni, dei momenti di rilascio; ma la tensione non fa che accumularsi, strato su strato, per cinque minuti. L’arrangiamento, squisito, segue perfettamente lo schema: ogni ingresso di uno strumento o di un nuovo elemento musicale non fa che accentuare il senso di soffocamento di una pulsione che prima o poi dovrà pur sfogarsi e che sembrerebbe proprio sull’orlo di farlo con l’ingresso del groove e del basso; e invece niente, ce la terremo.

L’atto

Nell’intervista autobiografica Psicomagia, Jodorowsky parla della funzione catartica e liberatoria dell’atto poetico, inteso come un’azione più o meno innocua che si intraprenda all’infuori della nostra e dell’altrui zona di comfort. 

Non conosco molti casi in cui ricevere passivamente un’opera d’arte costituisca di per sé un atto poetico; ma forse ascoltare queste o altre delle tracce degli IDLES subito dopo A Hymn potrebbe esserlo, almeno per noi stessi. 

Questa musica è fatta dannatamente bene, c’è poco da fare. I suoi toni acerbi e poco accomodanti non vengono sicuramente dall’inesperienza o dall’imprecisione che solitamente perdoniamo ai principianti; al contrario, dietro questi colori e queste forme spigolose c’è una profonda manovra di liberazione dai cliché stilistici, c’è il viaggio verso una meta che ha origini lontane e ben conosciute, ma che grazie all’opera degli IDLES e di altri insieme a loro ha una destinazione sconosciuta e, sembrerebbe, ben proiettata nel futuro. Teniamo d’occhio questi signori e tra un po’ quel galantuomo del tempo e il pubblico daranno il loro responso. Sempre che ne sentiamo il bisogno.

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