Gli androidi dei film di Ridley Scott sono passati da comparse a fulcro del discorso, cosa pensano e cosa motiva le loro azioni?
Se gli androidi nella saga di Alien han sempre avuto un ruolo marginale nella narrazione, da Prometheus in poi sono stati messi al centro della storia e resi coloro che incarnano i messaggi che la pellicola porta con sé.
La fantascienza, come genere sia letterario che cinematografico, ha la capacità di stimolare una riflessione sui problemi del presente proiettandoli in un futuro ipotetico. Esiste però un gruppo di film di fantascienza che hanno affinità con l’epica, che portano in sé storie e temi classici universali. Prometheus (Ridley Scott, 2012) ne è un esempio: già nel titolo troviamo un riferimento alla mitologia greca. Cioè a colui che può essere considerato non soltanto un simbolo di ribellione e di sfida alle autorità divine, ma anche colui che ha permesso al genere umano di vivere grazie al dono del fuoco. Non a caso il film si apre con la scena in cui un Ingegnere, dalla carnagione pallida e altezza molto simili a quelle delle statue di marmo dell’epoca classica, attraverso un sacrificio suicidio, sparge il suo DNA nell’ecosistema, permettendo così il proliferare della vita e della razza umana sulla terra.
Prometeiche sono anche le intenzioni del Signor Weyland esplicitate nel discorso che rivolge agli scienziati, nel quale afferma che per l’uomo il tempo di entrare nell’Olimpo è ormai giunto. La spedizione incarna quindi il desiderio di trovare risposte alle domande che l’uomo si pone fin dall’alba dei tempi. Nella speranza che esse ci diano strumenti e conoscenze utili al raggiungimento della vita eterna, ma anche per trascendere la natura umana e avvicinandosi al divino. Una volta presa conoscenza che il pianeta nativo degli Ingegneri porta il nome di Paradiso, la metafora è evidente.
L’Uomo alla ricerca di sé stesso
Il concetto di essere umano porta con sé un paradosso. Da un lato, potremmo dire che l’essere umano sa di essere un animale, ma vuole essere umano. Il divino appare come l’orizzonte di questo desiderio. D’altra parte, questo desiderio si trasmuta senza soluzione di continuità nel suo opposto, nel non voler essere questo animale tragicamente desideroso di essere umano. Quindi, l’essere umano è l’essere che non vuole essere umano. Il robot emerge su questa estremità del processo come risultato della sottrazione di umanità indesiderata, un essere privo di ciò che l’uomo teme: la fame, la solitudine, la morte.
L’umano è quindi l’essere che vuole e non vuole essere umano, e questo suo continuo e costante dibattito interiore è alla base di ciò che è: un essere cosciente. Il suo continuo interrogarsi sulla propria natura, questa costante necessità di darsi una definizione, lo ha portato però a vedere se stesso come centro dell’universo, come unità di riferimento per tutto quello che lo circonda, arrivando ad influenzare anche il modo con cui ha concepito la figura divina, vista unicamente come generatrice degli esseri umani.
Lo scardinamento evolutivo
Le contaminazioni portano alla morte, a mutazioni violente e alla nascita di mostri. I due film mostrano l’uomo intento a rompere i propri limiti umani, ma le conseguenze di tale gesto lo portano a spezzare anche i limiti del suo corpo, che viene violato, infettato, invaso, mutato, squarciato. Viene minata anche la distinzione tra religione, biologia, tecnologia e arte. Le contaminazioni portano anche ad una degenerazione evolutiva. In opposizione alla lenta evoluzione della teoria darwiniana, la mutazione porta a trasformazioni improvvise e su larga scala e all’impianto istantaneo di nuove specie attraverso un ritmo evolutivo accelerato.
Salti improvvisi nell’evoluzione hanno un costo per gli organismi coinvolti che vengono deflagrati dalla nuova vita che si sviluppa in loro, parassita nei loro corpi, quasi a volerne prendere il posto, in un meccanismo dove la successione evolutiva coincide con la sostituzione, con lo scambio, di una vita nuova per un’altra, in un rito ormai consono all’interno del franchise di gravidanze indesiderate e parassitarie frutto di una violenza orale, perpetrata da un essere alieno che muore dopo aver compiuto il suo scopo biologico.
Qualcosa di più grande
Il declassamento dello Xenomorfo da predatore perfetto ad arma biologica degli Ingegneri fa perdere indubbiamente un po’ di fascino alla creatura, ma permette a Ridley Scott di trattare attraverso i personaggi e i loro dialoghi temi quali la fede, l’evoluzione o la sopravvivenza della specie, i concetti di creatore e creazione, lo scontro eterno tra bene e male. Quest’ultimo tema viene messo in scena magistralmente dal rapporto che i due androidi intrattengono quando sono soli.
Nonostante i loro corpi siano identici, i due non potrebbero essere più diversi: David ha in sé la possibilità di creare, di generare o costruire qualcosa di sua spontanea volontà, qualità che lo porterà ad avere deliri di onnipotenza dandosi la missione di sostituirsi a Dio nella creazione di un essere perfetto, la stessa missione che si impose il Dottor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley. Walter invece, nonostante sia una versione migliorata di David, è stato privato del dono della creatività in quanto qualità che faceva apparire gli androidi troppo umani. David vuole che la razza umana si estingua in quanto specie imperfetta, Walter invece sostiene che è l’imperfezione a caratterizzare la specie umana, a renderla speciale, tanto da meritare una seconda possibilità. E’ un vero e proprio dialogo tra bene e male, tra il diavolo e Dio che si contendono le anime degli uomini.
Il bivio della Fantascienza
I film di fantascienza sono segnati inevitabilmente dalle aspirazioni scientifiche e tecnologiche dell’epoca nei quali vengono realizzati e ne testimoniano i dilemmi filosofici, politici e sociali.
Due tendenze interessanti caratterizzano i film che negli ultimi anni hanno trattato il tema dell’essere artificiale. C’è, per cominciare, l’usurpazione della figura divina da parte della macchina oltre che l’esplorazione delle implicazioni dell’intelligenza artificiale in quello che sembra essere il suo potenziale illimitato di memoria di archiviazione, gestione dei dati e controllo sui processi materiali. La vastità di questo potenziale e l’impossibilità per una mente umana individuale di contenerlo hanno dato origine a rappresentazioni quasi divine e mistiche della macchina.
La seconda tendenza potrebbe essere vista come compensativa rispetto a questa deificazione della tecnologia. Avere libero arbitrio, essere in grado di amare, possedere l’attitudine all’empatia o alla creazione artistica, hanno alimentato l’eterna discussione per evidenziare la differenza tra umani e robot. Negli ultimi anni però, la capacità di concepire e partorire naturalmente ha avuto la precedenza nella definizione dell’umanità. I robot che vogliono essere umani devono poter partorire. Questo concetto costituisce la principale differenza tra Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017) e l’originale Blade Runner (Ridley Scott, 1982), nel quale essere in grado di amare era ancora sufficiente a fare da spartiacque tra le due categorie in competizione.
Un ibrido tra le specie
Blade Runner 2049 aggiunge un ulteriore elemento a stabilire il grado di umanità di un soggetto nella forma dei ricordi di una propria infanzia passata. Se da un lato quindi abbiamo la figura dell’androide deificato, dall’altro abbiamo un androide che tenta di spogliarsi della propria artificialità per rendersi il più umano possibile, antitesi perfetta dell’uomo che punta a deificarsi rinunciando sempre più alla sua umanità, alla sua caducità mortale.
C’è da chiedersi dunque se, un giorno, le strade del creatore e della creazione si incontreranno lungo il percorso che stanno percorrendo dalle estremità opposte. E se dal loro incontro a metà strada nascerà una figura ibrida, una mente con sentimenti umani in un corpo sintetico. O forse c’è da sperare che i due soggetti non si incontrino mai e che siano destinati a guardarsi da lontano in eterno, ad invidiare l’uno le peculiarità dell’altro. In fin dei conti, il ruolo della fantascienza è anche quello di fungere da monito al non superare o rompere certi limiti. In questo caso, il monito ha un nome proprio: David.
Fonti
B. M. Rogers,Jesse Weiner, Benjamin Eldon Stevens, Frankenstein and his classics: The Modern Prometheus from Antiquity to Science Fiction, Bloomsbury, London 2017
M. Nikolchina, On (Not) Wanting to Be Human: Man and Robots, Traditions and Transitions, Sofia 2020
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