Prospettive e riflessioni da Effetto VR!, la sezione del Museo del Cinema di Torino dedicata all’esperienza sperimentale con visore.
I cinefili che vivono in Torino e la sua provincia sanno di essere più fortunati di altri. La città ospita infatti uno dei musei dedicati al cinema più grandi al mondo, nonché uno dei più spettacolari, poiché ospitato nella Mole Antonelliana, palazzo simbolo della città. Inaugurato nel 2000, il museo non ha subito grandi rinnovamenti nel corso degli anni, rimanendo pressoché ancorato alla formula del ripercorrimento storico delle principali scoperte e innovazioni dalla preistoria del cinema fino agli approdi digitali, basti pensare che l’ultima sezione era dedicata a Matrix (1998). Quest’anno, cavalcando il senso di rinnovamento dettato dalla pandemia, il museo ha cambiato in parte volto, convertendo una sua parte all’intrattenimento e alla sperimentazione: le sale VR.
Poste come sostitute di due nicchiette della hall principale, le due salette permanenti da qui in avanti ospiteranno diversi film che mano a mano si aggiungeranno alla collezione del museo. Si tratta di cortometraggi realizzati per testare le potenzialità della realtà virtuale, e quindi godibili esclusivamente attraverso visore.
Lo ammettiamo: l’idea ci è parsa accattivante fin dalla locandina dell’evento, perciò abbiamo deciso di fare una visita per andare a vedere; ne siamo rimasti abbastanza entusiasti. Abbiamo dedotto una considerazione semplice, ma a nostro modesto parere non banale: questo evento è sintomo di un cambiamento radicale.
Questi spazi non rappresentano solo luoghi nelle quali ognuno può vivere una facile e veloce esperienza filmica del VR, avvicinando quindi chiunque al mezzo troppo spesso relegato a mero fenomeno da baraccone alle fiere (anche videoludiche), ma possono anche essere viste come feritoie attraverso le quali tentare di scorgere come sarà il futuro. Non solo di questa tecnologia ma anche del mondo che la accoglierà. Un altro enorme quesito ci è saltato subito in mente: come influirà questa tecnologia di esperienza visiva sul suo cugino più anziano, ovvero il cinema?
L’altra storia del cinema
Ma facciamo prima un passo indietro: guardando la storia delle apparecchiature fisiche, nel 1962 vede la luce ciò che può essere considerato il Disco di Nebra della realtà virtuale, ovvero il Sensorama. Si tratta di un apparecchio molto simile nella forma ai cabinati delle sale giochi il cui scopo era proiettare 5 film che andavano a stimolare vista, udito, tatto e olfatto dello spettatore. Negli anni successivi fa la sua comparsa anche La Spada di Damocle, il primo, primitivo, sistema di realtà virtuale con visore. Rudimentale sia nella sua interfaccia utente sia nel realismo, il visore da indossare era così pesante da dover essere appeso al soffitto, da qui il nome che gli è stato dato.
Solo nel 1977 si compie il primo vero passo decisivo verso il VR: l’Aspen Movie Map. Il principale scopo di questo simulatore era ricreare virtualmente Aspen, cittadina del Colorado: agli utenti era concesso di camminare per le vie in modalità estate, inverno o in modalità poligonale. Mentre le prime due modalità erano indirizzate alla replica di filmati delle strade della cittadina – un po’ come la visione in prima persona di Google Maps – la terza si basava su una poligonazione tridimensionale, con una grafica scarsa, visti i limiti tecnologici di allora.
Lasciando da parte i supporti hardware, il termine realtà virtuale (Virtual Reality, VR) viene coniato nel 1984 con la fondazione VPL Research (Virtual Programming Languages) fondata per mano del programmatore informatico Jaron Lanier, con lo scopo di sviluppare e vendere prodotti per la realtà virtuale. Tuttavia un termine molto simile, cyberspazio, era già apparso due anni prima dalla mano di William Gibson nel suo romanzo Neuromante, unanimemente considerato il manifesto del genere cyberpunk e l’opera che ha portato nuove visioni fantascientifiche all’attenzione del grande pubblico. E ancora, il racconto Duellomacchina (The Dueling Machine) di Ben Bova del 1963 è una delle primissime opere a trattare tematiche riconducibili alla realtà virtuale, poiché in esso si descrive una macchina capace di ricreare un mondo virtuale, nel quale due avversari possono duellare fino alla morte senza reali conseguenze fisiche.
Occorre quindi comprendere che quando si parla di realtà virtuale non si sta parlando di una novità, di tecnologia d’avanguardia: l’idea di voler ricreare un mondo virtuale, digitale, col quale poter interagire in prima persona esiste da almeno sessant’anni. Ciò che rende questa tecnologia ancora così fresca è il fatto che solo negli ultimi anni abbiamo raggiunto un livello tecnologico tale da poterci un minimo avvicinare al concetto di realtà virtuale per come era stato immaginato dalla produzione artistica non solo letteraria ma anche cinematografica.
Semplificando un po’, il senso dell’esperienza virtuale è dato dalla combinazione di due elementi: la presenza e l’immersione. Con ‘presenza’ si può intendere il livello di realismo psicologico che un soggetto esperisce dall’interazione con il mondo virtuale, nel rapporto istantaneo con l’ambiente e nella coerenza della sua evoluzione rispetto alle aspettative ed alle previsioni. Ad esempio, se si lascia cadere un bicchiere dalla mano, ci si aspetta che questo cada verso il basso e non fluttui nell’aria e, in quanto oggetto fragile, si prevede che il bicchiere si rompa una volta arrivato a terra. Se ciò non succedesse si perderebbe il senso di presenza nell’ambiente virtuale e l’illusione si mostrerebbe per ciò che è. In egual modo ciò accade anche nel mondo onirico dove, finché il senso di presenza viene mantenuto, non distinguiamo i sogni dalla realtà.
Con il termine ‘immersione’ ci si riferisce invece alla capacità dell’ambiente virtuale di coinvolgere direttamente i sensi del soggetto, isolandolo dagli stimoli dell’ambiente reale. Dal punto di vista psicologico, l’immersione si realizza con il coinvolgimento e l’impiego delle risorse cognitive del soggetto. Riprendendo l’esempio del bicchiere lasciato cadere, l’immersione è data non solo dalla sensazione tattile dell’oggetto che scivola via dalla mano, dal suono prodotto all’impatto col terreno e dalle conseguenze visive dell’azione, ma anche per esempio dall’attivazione dei processi automatici legati al tentativo di riprenderlo prima che tocchi terra e si danneggi. Con le tecnologie attuali il fotorealismo delle immagini rende quasi completa l’esperienza visiva, tuttavia gli altri sensi come il tatto e l’olfatto sono all’atto pratico trascurati rendendo impossibile una totale immersione nel mondo virtuale.
Freakshow
Nel caso dell’esperienza fatta alla Mole Antonelliana la situazione è più facile poiché il VR, per come è concepito in quell’esperienza, vuole porsi come evoluzione del cinema e non come diretto competitor alla realtà. Ne risulta quindi che non importa molto se unicamente la vista e l’udito vengono stimolati, poiché già da 126 anni è il cinema che gioca unicamente su questi due fronti (escludendo ovviamente rare e fallimentari sperimentazioni).
Se da un lato quindi non possiamo negare quanto sia importante aver reso così immediatamente accessibile a tuttə la possibilità di vivere un’esperienza VR, dall’altro lato ci troviamo ancora davanti ad una presentazione del mezzo come nuovo freak tecnologico del quale meravigliarsi e stupirsi senza però stimolare una riflessione sulle sue potenzialità per il futuro. Ironia della sorte, lo stesso trattamento che si riservava al cinema (quando ancora si chiamava Cinématographe) nei primi anni dopo la sua apparizione. È da notare infine che il museo non sembri particolarmente interessato a ripercorrere la storia di questa tecnologia (come è stato fatto in breve in questa sede) e l’esperienza sia presentata, anche un po’ forzatamente e in maniera acritica, come novità ‘incredibile’, un ultimo ritrovato della storia del cinema. Insomma, l’operazione di puro marketing in questo senso è palese.
Delle quattro esperienze proposte, abbiamo fruito dei due prodotti più peculiari e distanti tra di loro: parliamo di Revenge Room di Gennaro Coppola (2020), cortometraggio che affronta la tematica del revenge porn e di Happy Birthday di Lorenzo Giovenga (2019) – con un cameo di Achille Lauro – che affronta invece il tema dell’isolamento sociale facendo riferimento alla figura dell’hikikomori.
Revenge Room ci catapulta in una stanza, unico ambiente nel quale si svolgerà l’intera vicenda, divisa in due parti tramite la fusione di due riprese: un lato rappresenta il mondo reale, l’altra invece un luogo onirico. Le due parti non sono divise regolarmente, anzi, mutano in arredamento e colore a seconda dei movimenti che i personaggi compiono da un lato e dall’altro di queste due realtà. Questa peculiarità rende la fruizione del prodotto molto interattiva. I personaggi si muovono e parlano attorno allo spettatore, portato a seguirli con lo sguardo non solo per mantenere il contatto visivo con colui che sta parlando in quel momento ma anche per puro senso di curiosità nel vedere come l’ambiente muterà al suo passaggio.
Le due realtà inoltre tenderanno a parlarsi sopra facendoci vivere un’esperienza a tratti frenetica dove rincorreremo con le orecchie e con gli occhi ogni personaggio per seguire il più possibile le due vicende tra di loro collegate. Se questo può essere considerato un difetto da alcuni, poiché può risultare complicato seguire ogni dialogo e comprendere il finale, può anche però esser visto come una possibilità nuova che si apre allo spettatore: fruire dello stesso prodotto una seconda volta ma con una prospettiva diversa rispetto alla prima, seguendo personaggi che prima si erano lasciati da parte per dare attenzione a qualcun altro.
Happy Birthday ha una struttura più classica ma non per questo meno interessante. Protagonisti sono un padre e la figlia, col primo che cerca di stabilire un contatto con la seconda, affetta da depressione, nel tentativo di superare quella barriera invisibile che li separa. Molto interessante il discorso meta-cinematografico dell’opera, poiché assistiamo anche a scene in cui i protagonisti stessi indossano visori che li proiettano in una realtà virtuale comune dove, seppur per un breve periodo, riescono a interagire fino alla disconnessione di lei.
Elementi caratteristici sono i punti di vista a “360 finti”, situazioni dove la camera è posizionata in maniera tale che lo spettatore abbia solo 180 gradi di visuale libera nel quale spaziare, e i lenti movimenti di macchina che spostano il punto di vista a 360 dello spettatore permettendogli di fruire di cose che prima non erano alla portata dei suoi occhi. Da notare come, seppur non siano stati impiegati in tal modo, questi due escamotage siano ottimi per costruire suspense sottraendo allo spettatore la possibilità conferita dal VR di avere piena visione a 360°, occludendola in certe sezioni o andando a spostare il punto di vista.
Il quesito
Non si può non notare quanto la sperimentazione attorno al VR stia proseguendo e inizino, come nei casi citati, a fiorire tecniche per impiegare al meglio le possibilità che offre una visione a tutto campo. Se in un’opera abbiamo la freneticità col quale lo spettatore cerca di seguire la vicenda che si sta svolgendo letteralmente attorno a lui, dall’altra abbiamo la preclusione di tale possibilità andando a mostrare come l’avere 360° di possibilità non significhi doverli sfruttare sempre tutti.
Alchè, la fatidica domanda che si ripropone ciclicamente: queste tecnologie potrebbero effettivamente mettere in crisi l’idea classica di cinema, introducendo un’esperienza visiva che sovverte la grammatica e la fruizione del medium stesso? La risposta però è sempre la stessa, per quanto ci si arrivi percorrendo strade ogni volta diverse a seconda del periodo nel quale essa viene posta: è troppo presto per dirlo. Occorre però fornire la spiegazione dietro questa risposta.
Da un certo punto di vista, la domanda è mal posta, poiché sembra partire dal presupposto che il VR non sia o non possa essere cinema, ma qualcos’altro. A dispetto del salto di fruizione tra una pellicola e un video VR, quest’ultima potrebbe essere semplicemente un nuovo strumento in mano ai registi al pari delle differenti focali o formati della pellicola.
Non è più un fatto nuovo che alcune pellicole abbiano al loro interno porzioni in formato IMAX per dare maggior peso a certe scene chiave. Allo stesso modo potrebbe non essere lontano un momento nel quale possa esserci una integrazione del mezzo VR all’interno di pellicole “2D” per dare allo spettatore la possibilità di fruire di certe scene in maniera più libera. È necessario cominciare a riflettere su come le due tecnologie potrebbero interagire tra loro, piuttosto che contrapporsi l’una contro l’altra in attesa di un vincitore, in quanto due tipi di fruizione diversi che possono trovare dei punti di contatto oltre che di scambio reciproco.
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