riot ipnotico

Il suo nuovo disco Ethernity trova una convergenza con la leggendaria etichetta Mille Plateaux e gli ibridi futuri dell’elettronica.

Pauldavid Ligorio
Intervista a Simona Zamboli

Gli ambienti sono aperti nel caos, che li minaccia d’inaridimento o di intrusione. Ma la replica degli ambienti al caos è il ritmo. Quel che è comune al ritmo e al caos è l’intervallo, intermezzo fra due ambienti, ritmo-caos o caosmo: «Fra la notte e il giorno, fra ciò che si costruisce e quel che cresce naturalmente, fra le mutazioni dall’inorganico all’organico, dalla pianta all’animale, dall’animale alla specie umana, senza che questa serie sia una progressione…»

Gilles Deleuze e Felix Guattari, Mille piani

Erano gli anni ‘90 quando Achim Szepanski scrisse a Gilles Deleuze per annetterlo all’hardcore continuum della techno, cercando quel collegamento che avrebbe dato una dignità al genere, che ancora oggi deve difendere con tutti gli sforzi. Deleuze, morto di lì a poco, mai avrebbe immaginato quale impatto avrebbe causato la label Mille Plateaux, nome ispirato all’esoterico testo del pensatore francese. Ed è proprio su questa storica etichetta che la musicista milanese Simona Zamboli pubblica il suo Ethernity, un disco ben radicato in concetti che hanno ancora tanto da raccontarci sulla purezza oscura del suono. Ho intravisto Simona in videocall e siamo giunti a una conclusione: per ascoltare buona musica bisogna captare le giuste frequenze.

Pauldavid Ligorio – Ho visto che stai leggendo Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980) di Deleuze e Guattari e tra l’altro Mille Plateaux è il nome della label che ha pubblicato il tuo disco. Perciò partirei da qui: qual è la linea di continuità tra Mille Piani e il tuo lavoro?

Simona Zamboli – Si è vero, l’ho comprato giusto oggi e non vedo l’ora di leggerlo! Diciamo che ho iniziato ad ascoltare il genere glitch praticamente da quando ho iniziato ad appassionarmi di elettronica, ancora prima di iniziare a seguire Mille Plateaux con costanza. Da fonica mi sono concentrata sul suono di questi dischi, cercando di vivisezionarli e ricostruirli. Secondo me Ethernity non poteva che essere in continuità con l’idea estetica e politica di Achim Szepanski. È possibile che io abbia toccato una sensibilità in qualche modo tradizionale e che abbia fatto da medium tra passato e futuro. Ci sono voluti diversi anni per trovare il giusto incastro e sono grata ad Achim per avermi sostenuta in questo percorso, gliene sono davvero grata. 

La copertina di Ethernity, Mille Plateaux 2021

PL – Nel tuo lavoro convivono sfrigolii informatici e fondali oscuri, penso a una traccia come ‘Noise Hub‘, forse la più rappresentativa in questo senso. Oltre al glitch quali altri ascolti hanno ispirato il disco?

SZ – C’è sicuramente tanta oscurità. È una firma sonora che arriva dagli ascolti di techno tedesca e non riesco a non pensare a questi suoni dark quando compongo. Come si accennava prima c’è l’idea di un passato. Che si presenta come uno scavo in cui rovistare tra le macerie. Ciò può rimandare all’altro elemento tipico delle proposte di Mille Plateaux: convivere con gli spettri dell’hauntology. Tutto questo prova anche ad amalgamarsi a una vena hyperpop. Adoro FKA-twigs, la trovo geniale. Inoltre spero che il disco trasmetta anche il mio lato più eccentrico, che viene dalla mia esperienza con i DIVA, la band fondata da Davide Golin molto freak e volutamente intellettualoide. Un capitolo decisamente interessante del mio percorso. In questa prospettiva ‘Take me somewhere‘ è un pezzo in cui ho cercato di evocare questo solco profondo lasciato in me dal pop. 

PL – Ma quindi da dove arriva la tua idea di eternità?

SZ – Rispondere a questa domanda è molto difficile [ride]. Lavorare con gli strumenti elettronici ha aperto nuovi spazi per la mia immaginazione. Perché da un lato ho sentito il calore dell’hardware analogico, dall’altro il gelo dei software con cui rielaboro il suono. Mi sento un po’ un ibrido strano, quasi come un nuovo tipo di cyborg, e di incontrarmi a metà strada con le macchine. Dato che viviamo parecchio tempo dentro a un computer, e in questo periodo forse fin troppo, non mi è difficile immaginare un infinito inesauribile; sai, quella sensazione di avere tutto a disposizione in un mondo digitale. Siamo in una nuova era. La vera essenza umana sembra dissolta. A volte ho paura di essere poco più che una stringa di codice, un numero. L’eternità potrebbe dunque essere una frammentazione, prima di tutto dell’identità, dell’io. L’urgenza del disco è quella di trovare un’alterità, rimettere a posto i pezzi. 

PL – In effetti durante l’ascolto c’è una stratificazione impressionante. C’è anche un altro elemento potente che emerge secondo me, cioè l’ipnosi, ti ci ritrovi in questo tema?

SZ – Effettivamente si. Durante il mio percorso universitario di psicologia dell’arte questo tema è emerso più volte. Per come era intesa e praticata tempo fa, l’ipnosi era poco più che una pratica medica ed era usata per risolvere problemi di “mal d’amore”, le pene emotive, l’isteria e la schizofrenia. Ma a me sembra che l’ipnosi che la musica elettronica può generare, soprattutto per la ripetizione, ha più a che fare con la catarsi. Più che una pratica calmante è una cura. Succede in realtà con l’arte in generale. Per esempio, la copertina di Ethernity l’ho realizzata in after dopo una serata al Macao, ma in quel momento ero talmente lucida, persa nella mia auto-ipnosi, tanto da essere riuscita a dare voce alla mia interiorità. Sono alla costante ricerca di quegli impulsi che prendono vita nel mio cervello per dare una forma a ciò che già c’è dentro di me. Su suggerimento di un amico ho deciso di usare questi disegni di frattali per le copertine dei miei dischi. Ora che ci penso, l’arte terapia mi è stata di grande aiuto in un periodo della vita in cui mi sentivo persa. 

simona zamboli
Simona Zamboli

PLEthernity è un disco che alcune persone definirebbero sperimentale e credo sia necessario che ci si debba aprire a nuovi ascolti. C’è questo tipo di spinta oggi?

SZ – Quando lavoravo a una web radio locale come fonica ho avuto modo di rendermi conto di quanta vita musicale ci fosse a Milano. Dal proto pop, all’RnB alla disco. Si tende a riprodurre quello che arriva dall’estero e quindi penso che ci sia disponibilità ad ascoltare. Di artistə interessanti ne circolano, ma sono tuttə parte di circoli ristretti e a volte difficili da individuare. Per quanto la scena sia ricca credo di collocarmi un po’ a metà tra diverse estetiche. In qualche modo sono nella mia scena personale ed è questo che rende la mia musica unica. Ci sono artistə come Caterina Barbieri, che adoro ed è un mio punto di riferimento, che riescono ad essere così sperimentali perché proiettatə nella loro visione. Forse è proprio questo che c’è dietro a un disco senza tempo. 

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In copertina: Simona Zamboli