Nell’epoca del virus siamo immersi in un ecosistema di narrazioni che lottano per il controllo della realtà: Qanon prefigura nuovi campi di battaglia digitali e terreni d’avanzamento per l’estrema destra globale.
Fin dalle prime notizie sull’emergenza covid-19 il lessico utilizzato dai principali mass-media ha avuto una forte connotazione guerrafondaia. Il virus è stato descritto come un ‘nemico’ da sconfiggere, i medici come ‘eroi’, i morti come ‘caduti’ e gli strumenti sanitari come ‘armi’. Anche i principali leader politici europei, come Conte e Macròn, hanno adottato questo linguaggio, evidentemente per mostrarsi forti di fronte al terrore dilagante nella popolazione. Un atteggiamento mutuato dagli USA, e in particolare da quel Trump, che non si è fatto scrupoli a usare il “virus di Wuhan” come spauracchio per alimentare il consenso per il suo personale conflitto con la Cina.
Inventare il conflitto
Ormai da anni Trump è solito utilizzare simili operazioni di framing per indirizzare l’opinione pubblica. Operazioni per le quali, come riporta Annamaria Testa, si applica alla realtà “una cornice che può cambiare radicalmente il senso di qualcosa, attribuendole una specifica qualità, o isolando ed esaltando una singola qualità fra molte”. Questo tipo di retorica genera dei rischi non indifferenti. Da un lato, che tale manovra sia intenzionale o meno, il principale problema è dovuto al convincimento, da parte dei cittadini, che per uscire indenni da una situazione di crisi, si debba necessariamente limitare o sacrificare i fondamenti democratici del proprio paese. Infatti, come suggerisce Matteo Pascoletti, “La guerra è uno stato di eccezionalità che incide sul tessuto democratico: il bisogno di sicurezza e la volontà di trionfo sul nemico ci rendono più disponibili ad accettare compromessi al ribasso sui diritti”.

Nel caso dell’Italia gli effetti di questo tipo di comunicazione si possono intravedere nei recenti avvenimenti politici. È da notare l’improvviso aumento di popolarità del primo ministro Giuseppe Conte, protagonista assoluto sulla scena politica durante il lockdown di marzo-aprile 2020, con un punteggio di oltre il 60% nei sondaggi. Ma è anche da ricordare la pericolosa vittoria a mani basse del ‘si’ al referendum per la riduzione dei parlamentari.
La guerra che non c’è
Ora, è chiaro che affrontare una pandemia imponga di compiere scelte non facili, ma è evidente come a livello globale il populismo abbia utilizzato questa strategia della paura per accentrare il potere. Altro effetto collaterale, d’altra parte, è da individuare nella rinnovata crescita dell’estrema destra, che sfrutta la situazione di caos politico e malcontento generale per avanzare. Inglobando inoltre le nuove follie e isterie di massa, come il movimento negazionista no mask. C’è decisamente qualcosa che non torna e la sensazione è che si sia persa completamente di vista la realtà. Ma complichiamo ulteriormente il quadro.
Sembra che i termini di questo ‘conflitto’ si giochino su un piano differente dalla realtà bruta: quello narrativo. Proprio come nella sceneggiatura di un film, si scelgono gli elementi che determineranno il suo genere. In questo modo, la retorica bellica del virus permette lo spillover dal drammatico all’horror, con tutte le conseguenze che questo comporta. Si delinea perciò una storia non troppo distante da quel Contagion (Steven Soderbergh, 2011) che aveva tormentato le notti di molti cinefili. Mondo in cui la realtà è dominata da un nemico invisibile, che deve essere sconfitto con ospedali militari, tecnologie all’avanguardia e soldati nelle strade.
Il paradosso pantomimico del film, e allo stesso tempo il suo successo, è dovuto a un’inconciliabilità tra il visibile e l’invisibile. Un dissesto narrativo e cognitivo che mette in crisi le canoniche rappresentazioni dei film di guerra, di calamità naturali o supereroistici, post 11 settembre 2001. Quando il nemico è invisibile, sono le armi e il dispiegamento tecnico-scientifico stessi i veri protagonisti della storia. È infatti sintomatico che questo tipo di comunicazione sia utilizzata dai leader populisti. L’obbiettivo è creare una narrazione, calibrando il tono del racconto sulla base dell’effetto che si vuole generare. Con il fine di catturare l’attenzione del bacino elettorale e creare consenso, in parole povere: propaganda.

Il paese delle iper-meraviglie
Il vero campo di battaglia non sembra dunque essere quello per la lotta al virus, ma per il controllo della rappresentazione della realtà. L’epoca della post-verità ha aperto le porte a ciò che già si sapeva: la realtà non è qualcosa di pre-determinato, un monolite fatto e finito. Bensì un processo, individuale e collettivo, di lenta appropriazione, basato sull’idea che abbiamo, o crediamo di avere sulla realtà stessa. Insomma, la realtà non è altro che uno specchio distorto. In questo contesto è chiaro come l’obbiettivo della politica, delle aziende e dei singoli individui sia quello di rendere credibile, acquistabile e consumabile una realtà tra molte, attraverso la costruzione di una ben precisa narrazione.
Nel caso in cui questo tipo di narrazione sia particolarmente estesa e complessa, si potrebbe utilizzare la nozione di hyperfiction. Il vocabolo, coniato dallo scrittore Robert Coover nel 1993 e recentemente revisionato dal critico culturale Gianluca Didino, era usato per descrivere la sempre maggiore complessità delle narrazioni postmoderne, e “ha trovato una realizzazione forse inaspettata grazie a un’industria che all’inizio degli anni Novanta stava muovendo i primi passi: quella dei videogiochi“. È una fiction ipertrofica e “gonfiata di steroidi”, nella quale la realtà e la narrativa non sono più due piani distinti, due livelli ben localizzabili e non-sovrapposti.
Il racconto si alimenta della fiction, e questa finisce per condizionare le decisioni nella realtà. Soprattutto per il fatto che il media non è più il semplice mezzo per veicolare messaggi, ma diventa il messaggio stesso e il fine ultimo della comunicazione. L’intermediazione tra l’informazione e il fruitore è quasi annullata. Inoltre, non si tratta più di distinguere tra una realtà autentica e una sua simulazione, cioè un realtà degradata, come avviene in Matrix (Lana e Lilly Wachowski, 1999), dalla quale bisogna liberarsi, ma succede qualcosa di ancora più inquietante. Si decide che cosa è reale e cosa no, sulla base di ciò che fa comodo credere, con l’obbiettivo di scrivere il futuro.

Il complotto dei complotti
Il caso emblematico, emerso durante questo nefasto 2020, è ben rappresentato da QAnon. Si tratta di una teoria del complotto fortemente identitaria, nazionalista, xenofoba e antifemminista. Secondo la quale il mondo sarebbe controllato da un deep state chiamato Cabàl, una setta di satanisti pedofili, e Donald Trump l’uomo chiamato a ripristinare l’ordine. Detta così può sembrare esilarante, ma questo fenomeno negli anni è riuscito a polarizzare milioni di persone e a istigare numerosi omicidi e attentati pseudo-terroristici.
QAnon, piuttosto che una teoria del complotto tra le tante, è una sorta di complotto dei complotti. Nel senso che ingloba e legittima tutte le teorie del complotto concepibili. Dagli alieni alla finta morte di George Floyd, dalle scie chimiche al coronavirus creato in laboratorio, nulla si sottrae alla distorta lente dei Qcultisti. A tal punto che, secondo il brillante approfondimento di Wu Ming I, ‘teoria del complotto’ è un termine obsoleto, e si preferisce chiamarla conspiracy fantasy.
Le origini del fenomeno sono state identificate con il cosiddetto scandalo Pizzagate nel 2016. E negli anni si è formata una rete sommersa di informazione in competizione con i dati di fatto. Infatti, per ogni evento o notizia è possibile trovarne altrettante contrarie e distorte, tanto da formare un corpus di fake news talmente vasto da poter costituire una versione alternativa della realtà. È esattamente lo scopo alla base della modalità in cui prolifera QAnon. Ovvero un Alternative Reality Game (ARG), cioè un vero e proprio gioco interattivo di indagine e “ricerca” che mescola realtà e fantasia, nel quale ogni utente fruisce e amplia il gioco, attraverso la creazione di micronarrazioni virali e contenuti aggiuntivi, come il DLC per un videogioco tripla A.

Morte alla realtà!
Contenuti talvolta così convincenti e carichi d’odio da trascinare le persone in una sorta di allucinazione collettiva. In altre parole, in Rabbit Holes sempre più distanti dalla superficie, capaci di spingere ad uccidere per difendere o promulgare il verbo. Sembra di trovarsi di fronte alle vicende del profetico Videodrome (David Cronemberg, 1983), un film in cui un’uomo, esposto a oscure radiazioni televisive, non riesce più a distinguere la realtà dall’allucinazione. Queste sono infatti talmente vivide e polarizzanti che lo porteranno a commettere brutali omicidi.
Certo, si tratta di un film di fantascienza, ma le dinamiche sembrano avere alla radice la stessa carica oscurante della coscienza. “Morte ai pedofili, lunga vita al presidente Trump”, parafrasando il film. Dunque una mega-narrazione, né simulacro, né semplice fiction letteraria. Potrebbe QAnon rappresentare, insieme a tutto ciò che trascina con sé, un esempio concreto di Hyperfiction horror?
Ma chi sono i principali bersagli colpiti da questo morbo del pensiero? Non si sa di preciso, eppure nessuno è escluso dal contagio, chiunque può caderci. Quel che è certo è che le estreme destre globali sfruttino QAnon a proprio vantaggio per frugare tra l’elettorato e istigare alla violenza. Sempre secondo Wu Ming I, l’alt-right americana sembra essere direttamente coinvolta, ma anche i fascisti made in italy stanno cavalcando il trend, insieme alla marmaglia di negazionisti, camorristi e ultras.
Ci troviamo di fronte a un fenomeno complesso, ma è chiaro come “molte concause della diffusione di QAnon anche dalle nostre parti, e in generale della sempre più rapida proliferazione di conspiracy fantasies, vadano cercate nei contraccolpi psicologici ed esistenziali dei lockdown”. Un evento tragico che ha profondamente segnato la vita di tutti quanti. Un momento di debolezza, in cui si è reso necessario trovare un frame per interpretare ciò che stava succedendo. QAnon ha fornito una chiave d’interpretazione del presente totalmente irrazionale e distorta, facendo leva sulla paura delle persone. Riuscendo ad entrare con noncuranza e sotto gli occhi di tutti in maniera capillare nelle vite di milioni di internauti. Eppure, basta davvero questo per uscire di casa e uccidere la gente?

Eclissi della ragione
Poiché si tratta di un fenomeno che va avanti da almeno quattro anni è possibile che ci siano ragioni ancora più profonde. Ragioni che hanno a che vedere con le dinamiche dei nuovi sistemi di comunicazione di massa in generale.
Come scrive Franco Bifo Berardi, nel suo fin troppo lucido Futurabilità, citando Marshall McLuhan (Capire i media,1964) in merito alla sostituzione della stampa da parte di Internet come media mainstream, “[…] quando la sequenzialità della mente alfabetica è sostituita dalla simultaneità elettronica, il pensiero tende a passare dalla modalità dell’elaborazione critica alla modalità della mitologia”. La nuova mente mitologica automatizzata, memetica e procedurale intravista da Bifo subisce un’esposizione ai contenuti “così rapida, così breve, che l’elaborazione critica viene ad essere disattivata”. In questo modo gli internauti critici del XXI secolo sono costretti a surfare su uno “tsunami di merda” prodotto da una nuova specie di esseri pensanti, assoggettati a una logica di comunicazione totalitaria, e potenzialmente disposti a far valere le loro ragioni con la violenza.
In qualche modo è il dominio dell’irrazionalità a guidare le sorti dell’Occidente attuale. “Viviamo in un mondo crepuscolare” viene costantemente ripetuto in Tenet (Christopher Nolan, 2020), una vecchia storia a cui ci ostiniamo a credere. Se davvero si tratta di un’illuminismo oscuro, prepariamoci a tirare fuori le torce, perché saremo costretti a vederci al buio ancora per molto tempo.
Hai letto: QAnon-Virus, nuove cospirazioni e hyperfiction horror
In copertina: Conspiracies are more oppressive than viruses, Alberto Caresio